sabato 26 febbraio 2022

IL CARNEVALE A CUBA

 

“L'Africa, fra tutti i continenti, insegna questo: che Dio e il Diavolo sono una sola entità, la maestà eterna.”

Karen Blixen


Il Carnevale a Cuba si celebra d’estate e non a febbraio o a marzo per una ragione precisa: fino al momento dell’abolizione della schiavitù, per i neri che lavoravano nelle piantagioni di canna da zucchero, la fine di luglio significava anche il culmine delle fatiche del raccolto. I proprietari terrieri consegnavano le città per sei giorni agli schiavi che ne diventavano i padroni assoluti. I bianchi facevano questa concessione ai neri e si chiudevano in casa per tutta la durata della festa.

Anche i latifondisti avevano il proprio carnevale da cui i neri erano rigorosamente esclusi. Si celebrava, secondo il calendario cattolico, prima dell’inizio della quaresima e non aveva nulla a che fare con i tormenti degli schiavi.

Negli anni ‘20 del secolo scorso, il carnevale segregazionista dei bianchi venne finalmente abolito.

Il razzismo ha però resistito per molto ancora. Nei primi anni ‘50, proprio in occasione delle celebrazioni del carnevale cattolico, a Fulgencio Batista, nonostante fosse il Presidente della Repubblica in carica, venne negato l’ingresso all’esclusivo Havana Biltmore Country Club perché era mulatto.



La cosa più divertente è che, come da statuto del Club, il Capo dello Stato diventava automaticamente socio onorario. Ma a causa del colore della pelle, a Batista, l’accesso alla sede era precluso. Conflitti di leggi e regolamenti.



In seguito, per farlo presenziare all’inaugurazione di una darsena e di alcune opere pubbliche attigue al Biltmore Country Club, addirittura si allestì un’entrata di fianco al recinto per evitare che il dittatore passasse da quella principale. Oltre ai neri e ai mulatti, l’entrata era proibita agli ebrei.

Per quanto strano possa sembrare, anche il carnevale dei neri, nonostante sia una festa popolare per eccellenza, da sempre attua le proprie discriminazioni. La distinzione più netta è fra Paseos e Congas. Il primo gruppo è il più ricco ed è posto su un gradino più alto nella scala sociale rispetto al secondo. I Paseos ostentano carri sfarzosi con ballerini, coreografie ben sincronizzate e orchestre con decine di elementi. Ci si limita però al pasodoble e alla marcia composta.



Le Congas sono invece espressione della classe operaia, non hanno carri ma vi partecipa una moltitudine di danzatori vestiti in modo sgargiante che si agitano in maniera unica al ritmo delle percussioni. Seguono il suono della trompeta china, la cornetta cinese importata a metà ‘800 dai coolies, i lavoratori immigrati dall’estremo oriente.  
Lo strumento ha un timbro rauco, nasale ed acutissimo che sovrasta tutto e arriva più lontano di ogni altro. Musica assordante, danza sfrenata e alcol in enormi quantità dimostrano che anche nel carnevale cubano esiste la differenza di classe. 
Da un lato la compostezza e la raffinatezza dei carri e delle coreografie dei Paseos, dall’altro gli appetiti semplici delle Congas, le danze scatenate e lo smodato consumo di rum.

 

Ho assistito al carnevale di Santiago un paio di volte a metà anni '90, quando i turisti erano pochi e l'isola ancora impermeabile agli stimoli esterni. E’ considerato da sempre il più autentico. Non ho mai visto una tale voglia di dimenticare i guai della vita convogliarsi con tanta intensità nel breve lasso di sei giorni.

Il rum scorre a fiumi, le strade e la città intera restano impregnate dell’odore dolciastro tipico della canna da zucchero da cui si produce il distillato. Ti s’incolla addosso grazie al tasso d’umidità che in quei giorni dell’anno si mantiene costantemente attorno al 90%. 

Seminato lungo il cammino dei cortei festanti c'è pure il puzzo di piscio che sovrasta tutto. Presto ti abitui anche a quello, complice lo stordimento causato dalla miscela del rum con la musica.

Hai l’impressione d’avere addosso una seconda pelle, uno strano impasto di sudore e miasmi nauseabondi, misti all’alito rivoltante del tuo prossimo che da giorni non dorme e continua a bere per tenersi in piedi. E’ una sensazione simile, fatti salvi i tanfi, a ciò che si prova quando si scende dall’aereo venendo dall’Europa. T’avvolge una coltre calda e carica d’umidità che ti fa subito capire che sei ai tropici un’altra volta.



Durante il carnevale la voglia di ballare è sovrana. La Conga, il ritmo della festa, è ossessiva e liberatoria. Deriva dal suono primordiale dei tamburi africani usati per comunicare tra i villaggi delle valli del Congo. Gli schiavi neri lo hanno tramandato attraverso i secoli.

La gente comune s’accoda e balla senza fermarsi per l’intera durata della festa. La Conga alla fine scantona dalle rotte tradizionali e va in giro per i quartieri più poveri dove c’è la vera sostanza del carnevale, e si va avanti fino all’alba. Poi, al termine dei sei giorni, si ritorna alla normalità.

https://www.youtube.com/watch?v=hVpVvU2Hsd4  

(Conga Santiago de Cuba) 

https://www.youtube.com/watch?v=UF8Ap3xI5Bk

(Conga drums "La Casa del Caribe" Santiago de Cuba)





Nel corso degli anni sono stati messi in atto diversi tentativi per evitare che il carnevale venisse celebrato dai neri afro-cubani.

Il sindaco di Santiago de Cuba a metà anni ‘20 scriveva:

El estridente grupo de tambores, sartenes y gritos, a cuyos sonidos se escuchan multitudes epilépticas, irregulares y semidesnudas por las calles de nuestra metrópolis, y quienes, entre contorsiones y movimientos bruscos, muestran una falta de respeto a la sociedad, ofender la moralidad, desacreditar nuestras costumbres, rebajarnos ante los ojos de las personas de otros países y, lo que es peor, con su ejemplo, contaminar a los escolares, que he visto arrastrados por el calor de la lección, jadeando y sudoroso, participando en frenéticas competiciones en flexibilidad corporal en esos vergonzosos torneos de licencia.

Il dittatore Machado, forse il peggiore fra tutti i governanti dell’isola, per un periodo riuscì nell’intento.



Dopo un paio d’anni dovette però arrendersi e ordinare la ripresa delle celebrazioni. Da allora in poi non sono state più interrotte. 

La tradizione ha sempre resistito ai bianchi inquietati dallo spirito vitale del carnevale afro-cubano che spazza via ogni sovrastruttura e lascia nudi e in compagnia della più profonda natura umana. Eventualità di cui molti bianchi hanno da sempre paura.

La cultura nera afro-cubana è semplice, remota e ancestrale, scuote e mette in discussione ogni patina di ipocrisia e finzione. Spinge chiunque nel vortice delle proprie origini. Ci pone di fronte all'istintualità che i neri sanno cavalcare in modo agile e naturale. E’ questa la base della cultura nera, che ancora oggi spiazza quei bianchi che non cedono al suo incanto.



venerdì 29 ottobre 2021

IL RIUTILIZZO DEI PRESERVATIVI A CUBA

Con una vita sessuale normale la nevrosi è impossibile.

S. Freud 



Da qualche tempo a Cuba è in atto un dramma nazionale di proporzioni gigantesche. Niente a che vedere con i problemi economici acuiti dalla orribile pandemia. Nessun nesso con l’assenza del turismo che tanto apporta alle casse del paese.

 A Cuba, ormai da mesi, non si trovano più i preservativi. In questa terra l’articolo in questione è per molti osservatori molto più di un semplice genere di prima necessità. Per qualcuno le conseguenze della sua scarsezza o assenza potrebbero perfino mandare a gambe all’aria l’intero paese. Puoi privare il cubano d’ogni cosa, forse anche del rum, ma c’è chi è convinto che senza profilattici, a parte gli ovvi risvolti sanitari, l’isola rischia di diventare teatro di reali tumulti.

Fino a poco tempo fa c’era una tale inflazione di preservativi che li si impiegava per le attività più improbabili: per raccogliere i capelli sulla nuca o bloccare fasce di banconote, come tappo su bottiglioni usati per far fermentare liquore artigianale, per pescare in mare e, ben gonfi, per far giocare i bambini o come addobbi e festoni in occasione dei compleanni, etc.



http://contrattempo.blogspot.com/2017/07/le-molteplici-funzioni-del-preservativo.html )

Di recente in Vietnam è stata sgominata una banda di malviventi che riciclava preservativi in grandi quantità per poi rimetterli sul mercato e destinarli al loro uso principale.

 ( https://www.nytimes.com/2020/09/25/world/asia/vietnam-recycled-condoms.html )


 A Cuba la questione è però più profonda e va ben aldilà del lucro. Negare i profilattici alla popolazione equivale a togliere il bastone ad uno zoppo o privare qualcuno della vista.

Chissà poi quale sarà la vera origine del carattere nazionale cubano, in molti se lo domandano da secoli. Si potrebbe dire che da queste parti l’intimità è l’unica felicità possibile. E' stato detto di tutto per dare un senso e una spiegazione al fondamentale bisogno di contatto fisico che regola i rapporti fra gli abitanti dell’isola.

http://contrattempo.blogspot.com/2018/12/sesso-e-amori-cuba-ovvero-della-giostra.html )

Noi occidentali evoluti, perfino in età di piena tempesta ormonale, surroghiamo quasi ogni bisogno con l’uso dei social. Da queste parti, se spariscono i preservativi, sono dolori per tutti. 

E ancora, quale sarà il vero segreto dell’eterna felicità dei cubani? L’ossitocina prodotta dall’unione affettiva o la matrice carnale africana?

Tornando alle questioni più spicce, in questi mesi, al mercato nero, i preservativi costano più di 10 volte il prezzo politico che lo stato imponeva quando c’era abbondanza.

Ormai solo qualche turista, diplomatico o chi lavora per le aziende straniere e viaggia riesce a portarne con se qualcuno. Chi conosce l’isola comprende la portata della questione. Il sesso è anche rifugio per sfuggire alle amarezze e ai problemi della vita.

Le auto d’epoca a Cuba sono epitome della capacità di preservare e mantenere vivi gli oggetti nel tempo.

 ( http://contrattempo.blogspot.com/2017/10/i-cubani-e-le-architetture-della.html )

Tutti conoscono le abilità del cubano al momento di riciclare, ma nessuno avrebbe mai pensato al reimpiego dei preservativi.


E' questa l'ultima frontiera possibile per assicurarsi l'irrinunciabile intimità a Cuba.

Noi passiamo il tempo a spuntare il prezzo migliore su Amazon per beni voluttuari, spesso solo inutili, felici di averli fatti nostri per pochi soldi. Quì non esiste il commercio online, il contatto sessuale equivale a un bene o diritto primario, e il preservativo è strumento chiave per farlo valere. Senza scordare che si tratta anche di diritto alla salute, data la proverbiale promiscuità degli abitanti del luogo.

Il governo, come si può comprendere, al momento ha ben altre priorità. Ma forse ovviare alla mancanza di preservativi è una priorità come le altre, e per molti è perfino la più pressante.

A Cuba da anni non ci si riproduce più come si usava una volta. Mettere al mondo figli ha ormai un costo anche qui, nonostante il sostegno economico statale per assicurare nuova linfa vitale alla Revoluciòn. Il preservativo serve anche a limitare i danni.



L’astinenza sessuale, come dice Freud, è senza dubbio poco salutare ed è quasi più pericolosa del celibato sacerdotale. Dicono che questo sarà il vero problema sanitario nell’isola, altro che Covid-19.

Da noi i giovani, privati della libertà a causa della pandemia, sono vittime di scompensi mentali. C’è già chi scommette che i cubani senza preservativi impazziranno in massa.

sabato 28 agosto 2021

MONIKA ERTL, L'ANGELO CHE VENDICO' CHE GUEVARA

 

Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare dove sei e cambiare il finale.

C.S. Lewis

 



Ci sono storie di questo mondo che sembrano poter prendere corpo solo in un luogo magico e indefinibile come l’America Latina. L’incrocio di vite ed esistenze antagoniste e al contempo prossime può avvenire ovunque. Ma da queste parti, nel continente più giovane di tutti, il terreno ideale è forse più fertile, e un continuo rovesciamento di ruoli può essere più naturale che altrove.

Si dice che solo le tragedie greche o il più intricato dei drammi shakespeariani possano reggere il confronto con la storia di Monika Ertl, tedesca, figlia naturale del nazismo e poi adottiva del sogno rivoluzionario guevarista.


MONIKA ERTL


Hans Ertl, padre di Monika, esploratore, alpinista, scrittore, antropologo ed etnografo, nacque nel 1908 e fu assistente di Leni Riefenstahl, la cineasta che glorificò il nazismo con le sue riprese dei Giochi Olimpici di Berlino nel 1936.

(Ertl in Bolivia)

(Ertl sul Nanga Parbat nel 1953) 

Ertl non era un fervente nazista e sembra non avesse nulla contro gli ebrei. Ma ebbe la sventura di essere identificato con la figura del fotografo ufficiale del Fuhrer.



Monika con il padre Hans Ertl

Alla fine della seconda guerra mondiale, come molti ex-militari tedeschi, decise di trasferirsi con la famiglia in America Latina, prima in Cile e poi in Bolivia dove compra un latifondo di più di 2500 ettari. La terra confinava con le proprietà di Hugo Banzer che nel 1971 prenderà il potere grazie ad un colpo di stato. 

La tenuta dove viveva la famiglia Ertl era frequentata dai peggiori torturatori nazisti. Klaus Barbie, il famoso macellaio di Lione, era di casa e Monika da bambina lo chiamava “zio Klaus”.


Klaus Barbie

Hans Ertl riuscì perfino a trovargli un lavoro a La Paz facendolo passare per un ebreo tedesco. Dopo qualche anno, Barbie diventò uno dei consiglieri più ascoltati del governo e delle peggiori dittature latino-americane di quel periodo.

Nel frattempo Monika sposa un tedesco-boliviano, ma il matrimonio fallisce dopo meno di dieci anni. La Ertl, eccellente fotografa e documentarista, vissuta per anni fra le peggiori bestie naziste, a questo punto compie una virata integrale e abbraccia la causa dei diseredati boliviani impegnandosi anche economicamente nella fondazione di una casa per orfani a La Paz.





Dopo l’assasinio del Che, avvenuto in Bolivia nell’ottobre del 1967, la storia di Monika prende una piega ancora più radicale. La Ertl si arruola nella Guerriglia di Ñancahuazú in cui aveva militato Ernesto Guevara prima di essere trucidato. Monika, come racconta la sorella Beatriz, “adorava il Che come se fosse un Dio.”

Abbandonata la cinepresa diventa “Imilla” la rivoluzionaria e prende residenza in un accampamento paramilitare sulle colline boliviane con il grado di agente operativa dell’ELN.

Klaus Barbie, sempre lui, secondo fonti da più parti confermate, ebbe un ruolo chiave nella cattura del Che in Bolivia in qualità di consigliere militare della dittatura del tempo.


Quintanilla (a destra) dopo l'uccisione di Ernesto Guevara


Ma chi decise l’assassinio e la mutilazione di Ernesto Guevara fu Roberto Quintanilla Pereira. Oltre ad aver tagliato le mani del Che per testimoniare l’avvenuta esecuzione, Toto Quintanilla uccise anche il compagno di Monika, l’amatissimo Inti Peredo, l’ultimo erede di Guevara in Bolivia.


Inti Peredo

Si può ben intendere, dopo tanti dolori, quanto odio Monika covasse nei confronti di Quintanilla, tanto da decidere di tornare in Germania per farlo fuori (il regime boliviano lo aveva intanto promosso console ad Amburgo).

Imilla pianifica nei dettagli l’agguato e riesce, con un pretesto e grazie alla propria avvenenza, a farsi ricevere dal console nel suo ufficio. Il primo aprile del 1971 spara tre colpi e porta a compimento la vendetta sognata da tutta la sinistra mondiale. 

Sulla scena, oltre alla pistola, la parrucca e una borsetta, che in una breve colluttazione la moglie di Quintanilla riesce a strapparle, lascia un biglietto con la scritta “Vittoria o Morte”. 


Quintanilla console ad Amburgo

La pistola, una Colt Cobra 38 Special gliela aveva consegnata a Zurigo Giangiacomo Feltrinelli, grande amico di Fidel. L'arma l'aveva comprata egli stesso in una armeria in via Croce Rossa a Milano, a due passi dalla sede della casa editrice. 

L'editore, per questa ragione, venne poi indagato quando era già in clandestinità. 


Feltrinelli e Fidel all'Avana negli anni '60

Altri boliviani sono stati uccisi per aver favorito la cattura del Che. Non ultimo Renè Barrientos che nel 1964 aveva preso il potere in Bolivia con l'ennesimo colpo di stato. Il dittatore, secondo alcuni, morì in un attentato aereo organizzato per vendicare la morte di Ernesto Guevara. Il contadino che tradì il Che, ed in cambio ricevette una tenuta agricola come ricompensa, venne finito a colpi di bastone davanti l'uscio di casa.   

Dopo l'assassinio di Quintanilla, Imilla diventa la donna più ricercata non solo dalla polizia boliviana, ma anche da tutte le dittature militari dell’epoca e dalla CIA. Sulla sua testa pende una pesante taglia. 


A questo punto della storia ci si chiede: chi mai potrà braccare Imilla? Il vecchio “zio Klaus”, come è ovvio che sia!


Il macellaio di Lione

Régis Debray, il grande traditore di Guevara, racconta che Imilla, di passaggio a Cuba, gli aveva rivelato che il suo prossimo obiettivo sarebbe stato proprio Barbie. Contava di arrestarlo e portarlo in Europa per farlo processare (per molti, Debray tradì anche Imilla). Feltrinelli era pronto a finanziare le spese logistiche e l'affitto di un aereo per estradare il nazista.

Ma il vecchio Macellaio di Lyon nel 1973 la precede, uccidendola con un compagno in una imboscata vicino La Paz. 

Hans Ertl ha sempre affermato che, prima di essere ammazzata, Monika fu torturata dallo stesso Barbie. 

Prima di comprendere la vera natura del boia di Lione, Ertl, nel tentativo di salvare la vita della figlia prediletta, fa visita proprio a Barbie chiedendogli consigli. Il nazista risponde che solo consegnandosi Imilla avrebbe potuto ottenere clemenza, salvando così le proprietà di famiglia dalla confisca del governo. 

Nel frattempo le dava la caccia con tutte le proprie forze e agiva perchè Ertl venisse privato di tutti i beni, cosa che puntualmente avvenne.

Hans Ertl era stato generato da uno stupro. Sempre rifiutato dalla madre, solo con Monika era riuscito a trasmettere il proprio affetto a qualcuno.

I resti di Monika non sono mai più stati ritrovati perchè, su indicazione del governo, furono gettati in una fossa comune.

Imilla in lingua Quechua e Aymara vuol dire piccola bambina.



sabato 15 maggio 2021

IL TEMPO DELLE CODE A CUBA


Quanto dura un minuto? Dipende da quale lato della porta del bagno si è.

A. Bloch


Tutti sappiamo che la percezione del tempo e la sua misurazione, in barba a tutti gli standard comuni adottati ai quattro angoli del mondo, variano a seconda delle latitudini e delle diverse culture. 

Ci sono europei che vivono a Cuba da anni e riescono ancora ad infastidirsi se i nativi non rispettano l’orario di un appuntamento. Molti arrivano perfino a perdere il controllo se costretti ad aspettare qualche ora in coda fuori da un ufficio pubblico o per entrare in un negozio statale o in un supermercato. 

Qui perfino l’idea di spazio-tempo, la sua curvatura e la contrazione della massa, se si potessero avvertire, verrebbero messe in discussione. Eppure, in questa terra c’è la prova che il tempo è un fatto locale. 



Quando un cubano fissa un appuntamento si tiene sull’indistinto per principio consolidato. Mai si dirà ci vediamo alle 5.30, sarebbe troppo arrischiato. Si dice “a las cinco y pico”, più o meno alle cinque e cocci. E quel “pico” è variabile indipendente, denominatore inafferrabile di una idea di tempo che sfugge al vincolo numerico. E’ certo che i trasporti pubblici e privati locali non aiutano, e rendono ogni spostamento complicato e non privo di sorprese, tanto che tenersi sul vago è sempre buona regola. Ma è la natura stessa del cubano, prima di ogni causa esterna, che impone l’uso della formula del “pico” che può voler dire 5 minuti dopo le 5, 55 o tutto quello che sta in mezzo. 



Nulla è certo e riproducibile in serie da queste parti, non ultimi i comuni disbrighi burocratici che, più d’ogni altra cosa, riservano sorprese inaspettate. Perchè ipotecare il futuro quindi? Non conviene e spesso causa disillusioni che nessuno è disposto a sopportare. 

Allora è come se il cubano prendesse a prestito la tipica flemma anglosassone, rielaborata secondo i propri costumi, per poi impiegarla per galleggiare in modo rassegnato, ma non senza buonumore, in un paese in cui l’attesa in apparenza inutile delle code può diventare opportunità di socializzazione. 

Purtroppo, nell’ultimo anno, a causa del Covid, gli afflati e la messa in comunione dei corpi, che ne erano la parte più mondana, non esistono più. Spesso manca anche lo scambio di idee e informazioni sui prodotti in vendita o sui servizi richiesti. Anche la voce di qualcuno, magari imbottito di rum, pronto a inveire contro l’inefficienza, la corruzione dei funzionari, degli impiegati o di altre entità imprecisate. 



Il bello di questa santa isola lo trovi anche nelle code, dove c’è sempre qualcuno da ascoltare che racconta qualcosa che vale la pena di conoscere. In fila può pure capitare di incontrare una star della televisione o del cinema, o qualche sportivo di rango che ha perfino vinto delle medaglie alle olimpiadi. A stento vengono notati dal resto della gente perché qui l’idolatria delle nostre parti è assente e ogni attenzione si concentra sul numero di persone che hai davanti. 

Ad ogni modo le code sono ancora il vero termometro per capire la temperatura e sondare gli umori del popolo locale. 

A Cuba si sta in fila per tutto, tanto che esiste una categoria di lavoratori, i coleros, non ancora sindacalizzata perché non riconosciuta dallo stato, che si premura di rivendere i turni ai migliori acquirenti. Dopo aver passato notti all’addiaccio di fronte ad un negozio o ufficio per potere acquisire il diritto, il colero lo cede a chi non è disposto ad aspettare per ore in fila. 



Solo all’Avana si pensa siano centinaia, gente che si muove da una zona ad un’altra a seconda dei bisogni dei cittadini, che con puntualità intercetta e sfrutta a proprio vantaggio. 

Se, per esempio, si ha notizia riservata che in un supermercato il giorno seguente venderanno un lotto di televisori che vanno a ruba per prezzo e qualità, allora il colero dormirà sotto i portici o sulla panchina più vicina, e ad apertura sarà lì presente. Oltre a cedere i posti in fila, i coleros comprano in proprio per poi rivendere a prezzi maggiorati quando la merce non sarà più disponibile.



Ancora più spesso si accordano con gli impiegati dei negozi statali che nascondono certi prodotti che però il colero per incanto possiede e vende all’entrata a prezzo gonfiato. 

Li riconosci subito fuori dai supermercati. Capisci che hanno tutto sotto controllo, sembra che lievitino al di sopra della gente ed è come se avessero i cinque sensi ad efficienza moltiplicata, pronti a cogliere ogni minimo refolo, movimento umano o l’approssimarsi della polizia. Sono anche fonte di informazione imprescindibile. 

Spesso, per ovvie ragioni professionali, riescono a mandare a memoria quasi l’intero assortimento del punto vendita, inclusi prezzi e pezzi ancora invenduti. A volte in modo più accurato degli stessi impiegati che conoscono solo il proprio reparto. L’attività impone un aggiornamento costante su tutti i movimenti merce. Gli impiegati, dal canto loro, hanno pochi stimoli, e sembrano brillare solo per la svogliatezza con cui si occupano dei clienti.  

Il colero riesce anche a travestirsi per aggirare le limitazioni all’accaparramento imposte dallo stato. Quando un bene ha una forte domanda, non si può comprare più di una quantità prestabilita di unità. Allora si lascia immaginare l’esplosione della fantasia e l’inventiva fa faville. 



Ultimamente, con l’obbligo della mascherina, pare che il colero che accaparra abbia ampio margine di vantaggio rispetto ai controllori che stazionano all’entrata. 

Le uniche categorie che a Cuba passano oltre il colero sono le donne incinte, gli anziani e i disabili. Hanno la precedenza e saltano le code sempre, e può succedere che rivendano il proprio diritto a terzi in cambio di un conguaglio o di qualche prodotto. Ma non rovinano il mercato. Eppoi la proverbiale solidarietà cubana è sempre viva, e si rafforza soprattutto se si tratta di concittadini svantaggiati e di situazioni di emergenza. 




Anni fa, nel pieno del “
Periodo Especial”, ci si spostava per chilometri fino ai margini della città perché qualcuno aveva avvistato un dato prodotto in qualche supermercato fuori mano. Salvo poi restare con un palmo di naso perché questo si era esaurito o la notizia era inventata. 

Da qualche anno, coi gruppi WhatsApp è tutto più semplice e le notizie sono più affidabili. Sembrava che i coleros dovessero sparire. Ma da parecchi mesi ormai, a causa del Covid e della crisi economica, si sono ridotte le importazioni, le merci di ogni genere scarseggiano, le code si gonfiano e i coleros vanno a nozze. 

Di nuovo, quale tempo ci dirà per quanto ancora?


venerdì 26 febbraio 2021

MIMA, UNA RUSSA A CUBA. UNA STORIA DEL SECOLO BREVE.

 Non so quanti anni ho perchè il tempo ormai non mi riguarda, so soltanto che perdo la mia bellezza, e l’altro giorno ho perso qualcosa in più: volevo dire vaso da fiori in russo e non trovavo la parola, ma in compenso ho trovato la più bella delle Rivoluzioni! 

M. Rovenskaya



Mima la Rusa è poco conosciuta sia a Cuba che fuori dall’isola. Eppure la sua storia è unica e irripetibile. Mima ha attraversato il ‘900 vivendo e poi abbracciando in prima persona due rivoluzioni alla lontana imparentate, quella bolscevica e la cubana.

Nessuno al mondo, con certezza assoluta, ha avuto modo di provare tali ebbrezze.

Magdalena Menassés Rovenskaya nasce per caso nella Siberia dell’Impero Russo nel 1911 quando la madre viaggia per fare visita al marito, consigliere militare dello Zar, temporaneamente distaccato al nord.

La residenza della famiglia è sulla Nevskij Prospekt a Pietroburgo dove Mima frequenta il miglior collegio della città, impara sei lingue e studia musica e canto che diventerà la sua professione.



Nel 1917 scoppia la Rivoluzione d’Ottobre e fino al 1923, dopo la conclusione della guerra civile e la vittoria dei bolscevichi, Mima resta in Russia. Un giorno, però, i rivoluzionari inferociti assaltano la casa dei genitori, sterminando perfino la servitù. Il padre viene giustiziato e l’intero patrimonio di famiglia confiscato. Mima riesce a fuggire, si sposa ancora giovanissima ed espatria col marito, il diplomatico Albert Menassès.



A questo punto inizia un lungo giro che porterà la coppia fino a Java per poi fare ritorno in Europa dove la Rusa si esibirà nei migliori teatri del continente. Mima, secondo fonti non confermate, canterà da mezzosoprano anche alla Scala di Milano.

Dopo qualche anno, il marito eredita un’attività già avviata a Cuba. La coppia visita l’isola e decide di stabilirsi all’Avana. In un secondo momento si spostano a Baracoa, nell’estremo sud di Cuba. 

In quel periodo il dittatore Machado, con una serie di avventate misure economiche, aveva bloccato l’economia dell’isola. Baracoa era però un’oasi di sviluppo grazie ad un accordo diretto con la United Fruit Company che da lì imbarcava carichi di banane all’epoca pagate a peso d’oro negli Stati Uniti.



Baracoa è un piccolo porto stretto fra il mare e la Sierra Maestra, la catena di montagne dove si asserragliarono Fidel e i barbudos prima di conquistare l’isola percorrendo, di vittoria in vittoria, gli 800 km. che li separavano dall’Avana.

E’ anche il luogo in cui Cristoforo Colombo per la prima volta toccò terra, e le cronache dell’epoca ci rimandano una sua esclamazione al momento dello sbarco: “Terra più bella che occhio umano abbia mai visto”.





La piccola città, per un breve periodo, fu anche la prima capitale dell’isola. Oggi sconta un isolamento che ha però in parte preservato la popolazione locale da influenze esterne. Nelle zone rurali del circondario si respira ancora la stessa aria dell'inizio degli anni ’90, prima dell’invasione dei turisti europei.



Mima la Rusa e il marito, appena arrivati a Baracoa, decidono di costruire sul lungomare un piccolo hotel con bar e ristorante che diventerà uno dei cardini della vita sociale della città. Errol Flynn, altre star di Hollywood e tutti gli uomini d’affari americani della zona erano di casa nell’albergo.



Poi arrivò la Revoluciòn e Mima non ebbe esitazioni. Si schierò subito con Fidel, aiutando i suoi uomini ancora prima della vittoria finale. L’hotel diventa per un periodo perfino la sede ufficiale del direttorio politico-militare dei castristi.

 


Mima ospita Fidel, Ernesto Guevara, Celia Sanchez, Alicia Alonso, Nicolas Guillen, Alejo Carpentier e Raul, con cui ha un rapporto di reciproco rispetto e ammirazione.

Alla Revoluciòn regala il suo impegno diventando membro del CDR locale e della Federaciòn Mujeres Cubanas, dona 25.000 dollari alla causa e le viene anche espropriato l’albergo, eventualità che forse Mima aveva già messo in conto, per lei quasi un dejavu. 

Raùl da però ordine di derogare e si assicura che la Rusa possa continuare a vivere lì fino alla fine dei propri giorni. 

Negli anni ’60 le propone di unirsi a una delegazione cubana che sarebbe andata in visita in Unione Sovietica. Sembra volesse mostrarle lo sviluppo dell’URSS, dandole anche l’opportunità di visitare la madre patria. 

La Rusa cortesemente rifiuta l’invito dicendo che di quel paese ha solo pessimi ricordi che non ha intenzione di rinverdire.

Nessuno sa quale strano accidente biochimico o istinto primario porterà Mima ad imbarcarsi nell’avventura di dare pieno sostegno a una rivoluzione che, per la seconda volta nella sua vita, la priva di tutti i beni, e solo per gentile intercessione le concede di continuare a fare l’amministratrice stipendiata dell’hotel che lei stessa aveva costruito.

Alcuni dicono che forse non avesse più la voglia o l’età per cambiare paese e ripartire di nuovo da zero. O ancora che sia rimasta impressionata dagli scempi di Batista e dei suoi sbirri che spesso frequentavano l’albergo consumando senza pagare e con l’arroganza degli impuniti.



Mima resterà a Baracoa fino alla morte, guadagnandosi la considerazione e il rispetto di tutta la città.

La sua storia è così unica che Alejo Carpentier, vero capostipite del realismo magico, la rivisiterà in uno dei suoi romanzi, “La consagración de la primavera”.



Al suo funerale, nel settembre del 1978, parteciperanno tutti gli abitanti di Baracoa e dintorni.


sabato 21 novembre 2020

LA SANTERIA A CUBA

 “Quando ero ragazzino mio padre voleva che io fossi un bravo cattolico e che mi confessassi tutte le volte che avevo pensieri impuri sulle ragazze. Così ogni sera io diventavo rosso a confessare i miei pensieri. Così successe una sera, e poi un'altra sera, e così via. Dopo una settimana decisi che la religione non era fatta per me.”

Fidel Castro


I riti della Santerìa afrocubana e la sua intera iconografia religiosa sono sopravvissuti all’insana voglia di gran parte della chiesa cattolica di annientare ogni altra confessione religiosa grazie ad un’ingegnosa trovata che ne ha generato la matrice sincretica.

Angariati dagli schiavisti e dalla maggioranza dei preti cattolici, costretti a rinunciare alla celebrazione delle proprie liturgie, i neri, in gran misura provenienti dalla zona centrale dell’ovest africano, trovarono un equivalente nella religione cattolica per ogni loro divinità. 



Eleguà fu così identificato con Sant’Antonio da Padova, Oggùn con San Pietro, Changò, l’incarnazione della giustizia e della forza, con Santa Barbara, etc.                                        

L’espediente consentì ai neri di continuare a rivolgersi ai propri numi senza doversi nascondere per sfuggire al controllo degli aguzzini bianchi. Quest’ultimi avevano sacro terrore dei riti Lucumì che riescono a scuotere chiunque, fino alle viscere più profonde.

Il cubano Alejo Carpentier, morto nei primi anni ’80, e secondo Leonardo Sciascia uno dei più grandi scrittori latinoamericani del ‘900, fu il primo a coniare il termine “realismo magico” (“real maravilloso”) e ad applicarlo alla letteratura latinoamericana e quindi alla vita del continente. 



Si tratta dell’inclusione di elementi mitici e fantastici in racconti d’ogni genere che altrimenti sarebbero perfettamente aderenti alla realtà. I figli di questa letteratura sono Juan Rulfo, Marquez, Borges, Amado, Cortazar, e altri ancora. Alcuni hanno però considerato il “realismo magico” come proiezione naturale della letteratura post-coloniale in America Latina. 
Si parla della necessità di dare un senso, fondendole tra loro, a due realtà separate: quella del colonizzatore e quella del colonizzato (il romanzo di Carpentier “Los Pasos perdidos” è il migliore esempio di questo tentativo). 

Forse il sincretismo religioso Lucumì, che per ovvie ragioni di sopravvivenza culturale tentava di attribuire un significato all’unione delle due realtà religiose, costituisce il culto precursore del “realismo magico” proprio perché anticipa i tempi tracciando, quasi inconsciamente, un sentiero che ha fatto la fortuna della letteratura latinoamericana.

Carpentier, in una prefazione ad un suo libro di racconti, cita Hegel includendo una correlazione che il filosofo tracciò fra l’America e l’Europa, e che lascia intendere il trasporto e l’interesse per una terra che in quel periodo costituiva una speranza e una frontiera ideale: “L’America è imponente, fisicamente e moralmente, e costituisce anche il futuro, la potenza per definizione. L’Europa è la perfezione dell’assoluto, ma è anche una vecchia armeria, la ‘gabbia’ dove la gente s’annoia e dove nessuno potrà mai far vibrare le trombe dell’Epopea”.

Si potrebbe aggiungere che l’America Latina è il Continente della Immaginazione per eccellenza.


La scrittrice ed antropologa cubana Lydia Cabrera è stata una delle maggiori studiose della Santerìa afrocubana e di tutte le sue derivazioni. E’ morta negli Stati Uniti agli inizi degli anni novanta. Ha pubblicato tantissimi testi, studiando soprattutto la componente animista della religione afrocubana.      
E’ tenerissimo il suo modo di rivolgersi agli umili neri con cui lei, bianca, ricca ed erudita, ha convissuto per anni. Spesso li chiamava “mis negritos”. 



La scrittrice ha sempre detto che se non fossero esistiti i neri a Cuba, non avrebbe mai vissuto lì. 

Se si prova infatti ad immaginare l’isola senza la presenza dei discendenti degli schiavi neri africani, si avverte un tale senso di privazione da lasciar spazio unicamente allo sconforto. 

Cuba si avvicina poi all’Africa e alle sue atmosfere forse più di qualunque altra zona del continente. Grazie alla preminenza dell’anima nera africana, si potrebbe definire l'isola un enclave della grande “Mother Africa” sull’altra sponda dell’Atlantico.    

Il mantenimento delle tradizioni culturali e religiose ha trovato terreno fertile a Cuba perché persino la morfologia del territorio assomiglia vagamente a ciò che i primi schiavi lasciarono alle proprie spalle: l’isola è infatti, per la maggior parte della sua estensione, simile ad una grande savana.


Come nel caso di altre confessioni religiose, è stato grazie all’opera di pochi membri isolati della chiesa cattolica che gli elementi chiave della religione afrocubana sono stati trascritti e sono arrivati ai nostri giorni. La più estesa collezione di proverbi Yoruba fu tradotta e pubblicata, attorno alla fine dell’ottocento, proprio da un prete missionario. 

I proverbi sono la linfa vitale della religione Yoruba. Uno di questi recita: “I proverbi sono l’olio di palma con cui condire e mangiare le parole”. Il culto dei proverbi è oggi parte della vita giornaliera del cubano. Chi più ne conosce e ne fa sfoggio, più cresce nella considerazione di chi lo circonda. 


Le divinità, denominate Orishas, non sono immortali. Sono spiriti che offrono protezione e saggezza ai devoti. Ci si rivolge a loro in situazioni critiche. Santero è l’adepto che ha un rapporto privilegiato con gli Orishas. I santeros, per ottenere tale status, devono seguire un complesso rituale d’iniziazione. 



Gli aspiranti sono sottoposti ad un esame da parte di uno o più babalaos (i vertici officianti). Dopo la nomina di due padrini, il babalao, grazie ad alcune complicatissime tecniche divinatorie che prevedono l’impiego di conchiglie e altri monili, indicherà all’aspirante santero cosa fare della propria esistenza. Vengono dati dei consigli che devono costituirne le direttrici di vita.              

Il babalao, dopo aver consultato i padrini che conoscono bene l’aspirante santero, e averne messo a fuoco la psicologia, impartisce ammaestramenti d’ogni sorta per migliorarne l’esistenza. Si combinano strane ed inverosimili imposizioni come la proibizione di salire scale a chiocciola o il non potersi alzare da tavola durante i pasti con consigli per mantenere un buon equilibro psicofisico. 

E’ appunto questo lo scopo principale della confessione: migliorare la qualità di vita degli adepti.

I padrini illustrano i punti deboli del soggetto al babalao che tenta di porre rimedio. Si tende a tenere nascosto all’aspirante santero questo canale di comunicazione fra le due parti, forse per accreditare maggiormente agli occhi di quest’ultimo le doti divinatorie del babalao.      

Agli asmatici, per esempio, viene imposto di non bagnarsi mai il capo fuori dalle mura di casa. La ragione di tale limitazione significa evitare ogni complicazione sanitaria. Agli ipertesi viene consigliato di ridurre il consumo di sigarette e caffè, e via di seguito.

Si prova, in breve, a mantenere un buon grado d’igiene fisica e mentale. Forse anche il buddismo segue, in parte, lo stesso percorso?

Nella Santerìa non c’è alcun vincolo assoluto, nessuna costrizione, non si promette e non si pretende niente, e soprattutto non si prevedono né espiazioni di colpe né punizioni. Dalla religione cattolica si sono mutuate solo le immagini sacre dei santi. C’è però un altro punto in comune: l’obbligo per i fedeli di entrambe le religioni di sottoporsi al sacramento del battesimo. 

Non è forse vero che i riti più impressionanti, in modo naturale, abbagliano e conquistano anche le altre religioni?


A questo punto inizia la purificazione e la vera e propria iniziazione del santero.

Per un’intera settimana il candidato dovrà stare rinchiuso in casa, attorniato dai padrini e dagli altri officianti. Il primo giorno si sacrificano una trentina di animali spargendone il sangue sul pavimento.



Il lavacro acquisisce differenti simbolismi a seconda degli animali che vengono uccisi. 

Si dice che nei secoli scorsi, in Africa, la purificazione fosse fatta adoperando anche sangue umano.



L’aspirante santero, durante l’arco dell’intera settimana, non muove un dito. Sta seduto su un trono arredato con i colori dell’Orisha che lo protegge, riceve continue abluzioni, gli viene cucinato il cibo ed ha l’obbligo di dormire su di una stuoia. Può ricevere brevi visite, ma solo ad orari prestabiliti.






Per un anno intero, il santero dovrà vestire di bianco per manifestare l'inizio di una nuova vita e rientrare a casa al calar del sole. In seguito, dovrà periodicamente alimentare il proprio Orisha con riti sacrificali che mantengono saldo il vincolo tra il religioso e la divinità protettrice.



La festa per omaggiare gli Orisha che conclude la settimana d’iniziazione è il “toque de tambor”.



E’ la cerimonia scandita dall’incessante e ossessivo ritmo dei Bata’, i tamburi sacri della Santerìa, in cui si sviluppa un macchinoso rituale che culmina con la “monta”, da parte di un Orisha, di uno dei partecipanti alla cerimonia. L’Orisha s’impossessa del corpo della persona prescelta e attraverso questa fornisce consigli e illumina i presenti.        
Lo stordimento generale provocato dal rullare crescente dei tamburi che riescono a far risuonare anche le corde più intime, una moderata dose di rum e, in alcuni casi, l'impiego di datura o secrezioni di rospo allucinogene, lentamente infiammano gli animi e procurano la trance.





Una volta abbracciata la religione, ogni piccolo problema quotidiano, ogni ostacolo che si frappone fra te ed un obiettivo che devi assolutamente centrare, ogni magagna sentimentale, per essere affrontata e risolta, richiederà l’intervento del culto e del cerimoniale. Grande fiorire di candele, di legature e slegature a seconda dei casi, e di promesse ai vari santi. 


Omaggio a Eleggua - Daymé Arocena

https://www.youtube.com/watch?v=fIqvuKnYWhk




Tutti hanno una storia da raccontare sulla Santerìa.

Anni fa, una delle santeras più in vista di un quartiere popolare di Santiago mi ha ricevuto grazie alle insistenze di un amico comune. La donna, che non avevo mai visto prima, mi ha fatto sedere su una sedia, e dopo aver portato a termine un lungo cerimoniale durante il quale mi ripuliva di tutti gli influssi negativi impiegando erbe d’ogni genere che mi strofinava addosso, ha iniziato a farmi domande personali a cui, per mia reticenza, cercavo di non rispondere. 

Le risposte le dava lei, e il più delle volte collimavano con la realtà. Non so chi le avesse comunicato che stavo a contatto con l’acqua di mare (sono un subacqueo e windsurfista incallito), né la ragione per cui m’interessa tanto conoscere il regime del vento.

La donna è poi entrata in trance e ha cambiato il tono e il suono della voce. Anche le parole che pronunciava non erano più in uno spagnolo intelligibile. I vocaboli, che all'inizio erano certamente di provenienza spagnola, acquisivano prefissi e suffissi d’origine indefinita e si mescolavano a suoni, vocalizzazioni, fonemi, lamenti, gemiti e altre parole d’origine africana che contribuivano a rendere l’atmosfera ancora più elettrica ed agitata. 



Il mutamento della voce mi sembrava coincidesse anche con un’alterazione dei tratti somatici della mia interlocutrice. Ho avuto l’impressione che le si fossero incavati gli occhi e allungato il collo. Sarà stato lo sforzo prodotto per variare il suono della propria voce o la mia autosuggestione, fatto sta che ho iniziato a provare profonda angoscia.                                                

La mia parte razionale diceva di riderci su, che si trattava dell’euforia del viaggiatore che porta a fantasticare, corrompendo i reali contorni delle cose. Però l’inquietudine era lì presente, e si faceva sempre più palpabile.

La santera, in un’atmosfera ogni istante più pesante, ha poi parlato di mia nonna materna, dicendo che il suo spirito avrebbe continuato a proteggermi. Ha affermato che ero figlio della “Niña del Congo”. 

Mi ha anche detto che sarei ritornato lì a Santiago e molte altre cose, la maggior parte delle quali si sono puntualmente avverate.

Ma ciò che mi ha più impaurito è stata un’interruzione improvvisa della presunta trance. Mi ha guardato fisso negli occhi e mi ha chiesto dove fosse mio padre. Ho risposto che era in viaggio, in quel momento si trovava in Marocco con mia madre. Ha poi abbassato gli occhi arrestando di botto e senza spiegazioni la cerimonia. A quel punto non ho capito bene cosa stesse succedendo. Poi, al ritorno a casa, sono riuscito a mettere a fuoco tutto.

Facendo una ricostruzione cronologica dei fatti, e calcolando la differenza di fuso orario, mi sono accorto che nello stesso momento in cui la santera mi ha chiesto di mio padre, dall’altro lato dell’Atlantico il pover’uomo ebbe un attacco di polmonite che lo portò quasi al creatore. Per fortuna riuscì a rientrare rapidamente in Italia affittando un aereo privato da Marrakesh fino a casa.


I ritmi d’origine africana che hanno fatto la fortuna della musica cubana nel mondo e la voglia di dimenarsi e ballare sono, insieme alla religione sincretica Lucumì  o Regla de Ocha e le sue derivazioni, il cuore della cultura popolare. 

Le religioni sono però sempre state avversate dal governo.

Negli ultimi vent’anni si è deciso di sostenere la Santerìa afrocubana per varie ragioni. La più importante è forse la necessità di controbilanciare la penetrazione della religione cattolica che stava ricevendo troppo impulso, anche a seguito delle visite dei vari papi. 

Tutti sanno cosa possa succedere nel caso in cui i cattolici riescano ad organizzarsi in modo efficiente nel territorio.



L’altra ragione è culturale ed anche economica. La Santerìa afrocubana ha attirato l’interesse di molti studiosi europei e americani. Aumentano gli stranieri che decidono di abbracciare questa forma di culto religioso. E ciò significa più dollari che saranno spesi nell’isola. 

All’inizio della Rivoluzione Castro decise che la Santerìa, come tutte le religioni, dovesse essere bandita da Cuba. Si è mantenuta viva grazie alla capacità dei cubani di rinverdire le proprie radici. Lo stesso Castro ha loro insegnato che la memoria del passato è importantissima per proiettarsi verso il futuro.  

La Santerìa è forse sopravvissuta, colmo dei paradossi, grazie allo stesso insegnamento fornito dalla Rivoluzione. 

Ora c'e’ un museo della Santerìa al centro dell’Avana Vecchia. Le facoltà universitarie che si occupano d’etnologia e branche affini tengono corsi sulle religioni afrocubane, e molti studenti e professori europei e americani vengono ad assistervi, partecipando a programmi di ricerca.

Anche i bianchi cubani credono fermamente nella forza della Santerìa, e spesso sono oltranzisti almeno quanto i neri che, per storia e tradizione, ne sono i principali depositari. Prima del ’59, la Santerìa aveva un’enorme influenza sia sulla cultura popolare che su quella delle elìte. Ma l’auge che sta vivendo in questi ultimi vent’anni non ha precedenti.





A Cuba, da anni, corre voce che Fidel, durante una visita in Guinea, giusto per non lasciare nulla di intentato, sia diventato santero

Si dice anche che il suo Orisha protettore fosse Oddua, re dei re, forse il più forte e potente, tanto da essere sincretizzato con Gesù Cristo...