martedì 18 ottobre 2016

IL SANGUE AMBRATO DEI NERI CUBANI

        
        
        Nonostante le abbondanti piogge e in barba a tutte le teorie cosmogoniche, nell’isola di Cuba si potrebbe fare a meno dell’acqua perché esiste il Rum. Le bevande alcoliche, se ingurgitate in generose quantità, procurano le sensazioni più disparate. La birra fa gonfiare lo stomaco e chi la beve diventa sguaiato e spesso violento, i superalcolici come il whishy, il cognac o la grappa tendono ad avere un gran effetto soporifero, il buon vino rosso può rendere persino il più ottuso degli uomini un amabile e brillante conversatore.
        Il rum, invece, appartiene ad una categoria unica. E’ violentissimo (gli inglesi lo chiamavano “kill-devil”) e al contempo mielato e dolcissimo. Si ha l’impressione di bere legno allo stato liquido, antichissimo e stagionato. Riesce a mantenere alta la soglia di attenzione di chi lo beve più d’ogni altro superalcolico. Le sbornie di Rum sono quasi eroiche e prima di apprezzarle è necessario prenderne almeno tre o quattro, altrimenti non ci si capisce niente. Il Rum di cui vale la pena parlare è però quello invecchiato per un minimo di 7 anni, altrimenti si parla di bevande da usare solamente per la preparazione di cocktail. 
        
        Il liquore venne distillato per la prima volta a Cuba e a Barbados attorno al 1650. Si tratta di un sottoprodotto della canna da zucchero che dopo vari miglioramenti del processo di distillazione si è evoluto diventando una bevanda alcolica pregiata.
        
      La coltivazione della canna da zucchero a Cuba è sempre stata fondamentale per l’economia dell’isola che per molto tempo è dipesa in larga parte dal raccolto e dalla vendita dei prodotti e sottoprodotti della pianta (Ernesto Guevara rimproverava a Castro la mancata diversificazione della produzione agricola – l’intero territorio era infatti coltivato a canna da zucchero, e ciò acuiva la vulnerabilità dell’economia cubana che dipendeva in modo abnorme dalla buona riuscita del raccolto della monocultura).  


        Va subito detto che il consumo di Rum a Cuba è smisurato. Il cubano tende ad esagerare in tutte le proprie manifestazioni, e la sconfinata capacità di immagazzinarlo  nel proprio stomaco è considerata tratto dell’uomo forte e macho. Se ne consumano quantità inverosimili. Mai nella mia vita avevo visto esseri umani riuscire a bere tanto. Gli stessi cubani dicono: “A la hora de tomar somos como caballos”. Anche in Venezuela, “pais hermano”, quanto ad assunzione di superalcolici non si scherza. Pare che il paese abbia il primato del più alto livello di consumo di whisky nel mondo. Anni fa sono rimasto stupito dal fatto che almeno tre cartelloni giganti su cinque a Caracas pubblicizzassero dubbie marche di whisky.
        
        A Cuba il Rum viene usato per mille uffici. Nei riti della Santerìa è indispensabile come l’acqua benedetta, le ostie o il vino della religione cattolica; si nebulizza con la bocca sul corpo della persona che viene così purificata dagli influssi negativi. Non esiste convegno amoroso che non venga battezzato da almeno un paio di bicchierini di Rum, che sempre scaldano gli animi. 

        Nella preparazione di molti piatti e dolci, e in cucina in generale, il Rum viene usato spesso, anche se è necessario sottolineare che invece di sprecarlo nella preparazione di 
pietanze varie , il cubano il più delle volte preferisce farlo riposare all’interno delle proprie budella. I sigari cubani vengono da molti insaporiti imbevendoli nel Rum più pregiato.


         Dalla canna da zucchero, oltre al Rum, si producono decine di sottoprodotti. Persino la benzina! Anche il Rum è benzina, ma si tratta del combustibile fra i più raffinati che esistano e quello su cui si è imbastita più letteratura d’intrattenimento. Basti pensare ai pirati, ai bucanieri, ai corsari, a Henry James, Sir Francis Drake e molti altri. Il Rum è stato il primo alcolico distillato in America e senza questo l’intero continente non avrebbe senso e forse non esisterebbe così com’è ai giorni nostri.
        
        Il Rum e le melasse da cui la bevanda si distilla sono state le monete di scambio per foraggiare il florido commercio di schiavi tra l’Africa occidentale e i Carabi. Il primo nome che venne dato alla bevanda fu “rumbullion”. 


        Gli schiavi neri portati ai Carabi non erano acquistati dai rivenditori locali ma venivano in gran parte scambiati con melassa poi trasportata un po’ più a nord, nel New England. A quel punto la materia prima era accuratamente elaborata, distillata e trasformata in Rum. Il prodotto finito veniva quindi re-impiegato per un ulteriore baratto, questa volta in Africa, ottenendone in cambio nuovi schiavi. Questi, alla fine del lungo ed estenuante intreccio commerciale, erano trasferiti ai Carabi dove avrebbero alimentato con il loro indispensabile lavoro quest’immane circolo vizioso.         


        Il liquido mielato è parte integrante della storia dei neri africani. Il Rum è quindi paragonabile al sangue che scorre nelle loro vene, sangue ambrato appunto. Le vite degli schiavi, al culmine della precarietà, dipendevano interamente da un incessante scambio commerciale che barattava il loro sangue per il pregiato distillato e viceversa (basta pensare a quanti di loro venivano lanciati fuori bordo se si ammalavano durante la traversata transoceanica o ai morti nelle piantagioni di canna da zucchero a causa delle condizioni di lavoro inumane). Non c'è niente di più interconnesso e simbiotico del rapporto che esiste fra il Rum e i neri cubani discendenti degli schiavi africani. 
        Gli stessi schiavi, lavorando nelle piantagioni dove si coltivava la canna da zucchero da cui si produce la melassa ed il Rum, sostenevano l’intera impalcatura su cui poggiava la tratta che è poi terminata a Cuba con la cacciata degli spagnoli. Il Rum è però rimasto, e oggi si consuma in così grandi quantità forse per esorcizzare le memorie del passato. E’ la fiamma che accende l’allegria della “fiesta cubana” . 

        Nel resto del mondo si consuma miscelato. A Cuba, soprattutto i neri, di solito lo bevono liscio. Forse lo fanno inconsciamente per ricordare a se stessi che quel liquido è l’origine di tutta la loro tradizione, cultura e vita nel Nuovo Mondo. Perciò non va contaminato con nessun altra sostanza. I cattolici bevono il vino che è sangue di Cristo, i neri cubani bevono Rum per non perdere la memoria dei loro travagli passati. Di certo c’è che oggi lo fanno per scordare i travagli presenti.
        

      
 
       A Cuba non esistono milionari o miliardari, almeno così dovrebbe essere in un paese comunista. Fino a pochi anni fa però, prima della quasi totale meccanizzazione del raccolto, esisteva un tipo anomalo ed imprevisto di milionario che riceveva, come fosse un cavaliere del lavoro, onorificenze d’ogni tipo da parte dei vertici politici e amministrativi. Non si tratta di imprenditori di grido che hanno fatto fortuna dal nulla, ma di semplici contadini che lavoravano alla “Zafra”, l’epica raccolta della canna da zucchero da cui ancora dipende in parte la buona salute dell’economia dell’isola. I milionari erano i “guajiros” che riuscivano a tagliare durante la loro vita un milione di canne da zucchero. Pochi raggiungevano un simile traguardo, ma una volta oltrepassato, venivano coperti di riconoscimenti e medaglie d’ogni foggia per aver contribuito in maniera determinate all’avanzata della “Revolucion”. 

  
        Tornando alla tratta dei neri, gli spagnoli iniziarono ad importarli sin dai primi anni del ‘500, subito dopo la scoperta di Hispaniola, divisa oggi tra S.Domingo e Haiti, e di Cuba. Anche la canna da zucchero venne importata nell’isola nello stesso periodo. La canna zucchero non è mai stata endemica dell’allora Isola Fernandina. Alcuni dicono che sia stato Cristoforo Colombo ad introdurla sia a Hispaniola che a Cuba. Altri affermano che il primo piantatore sia stato de Ballester o un tal Aquillon, entrambe viaggiatori dell’epoca. In ogni caso è certo che prima della scoperta del Nuovo Mondo, da quelle parti, la canna da zucchero non si era mai vista.
       
   
       
        Neri e canna da zucchero sono quindi, ancora di più, per ovvie ragioni storiche, binomio inestricabile. Sorti condivise ed inscindibili li accomunano sin dai primissimi passi mossi in questa nuova terra mai vista prima che però, almeno in alcuni scorci, assomiglia all’Africa a tal punto che alcuni schiavi una volta sbarcati, dopo aver ottenuto una illusoria libertà grazie a spericolate fughe e asserragliamenti nei luoghi più impervi per sfuggire ai propri aguzzini, si ostinavano a marciare in direzione est verso il sole, teneramente convinti di poter prima o poi riguadagnare la propria terra d’origine.
        
        Gli schiavi venivano in gran parte dalle zone centrali dell’Africa occidentale, ed  appartenevano a tribù che avevano tratti distintivi e soprattutto caratteriali molto diversi tra loro. Esistevano i Mandinga  definiti docili, infaticabili, generosi, rapidi nell’apprendimento ed eccessivamente fatalisti, forse a causa dell’influenza religiosa musulmana. I Lucumì, i più intelligenti, ottimi lavoratori ma difficili da soggiogare. I Bambaras, robusti,volubili ma allo stesso tempo allegri e dolci. O ancora i Fulas, catalogati come i più belli (oggi nel gergo cubano la parola fula ha svariati significati; curiosamente, tra i tanti appellativi impiegati per i dollari, fula è quello più in voga) e gli Yolofes, agguerriti, bellicosi, e anch’essi difficili da governare. Quest’ultimi, di origine senegalese, vennero impiegati dai francesi nelle truppe coloniali. La loro aggressività obbligò la casa reale spagnola a promulgare un editto che ne vietava la l'importazione nel Nuovo Mondo perché costituivano una seria minaccia per l’ordine pubblico. 
        
        In ogni caso, nonostante le differenze, tutti gli  antropologi ed etnologi dell’epoca, fra cui spicca Don Fernando Ortiz, concordano nel definire i neri che sacrificarono la loro carne alla tratta come: “Naturalmente indolenti, di una sensualità debordante, allegri, amanti del piacere frenetico e del ballo, timorosi di fronte a ciò che non conoscono ma coraggiosissimi se minacciati da un pericolo reale e visibile”. 
      
     
        Gli uomini bianchi che colonizzarono Cuba possedevano anch’essi vizi e virtù. Gli spagnoli di quell’epoca erano guerrieri professionisti  che per anni si erano scontrati con gli arabi e gli ebrei durante la Reconquista delle provincie del sud della Spagna, e in quel momento individuarono nelle Antille e nell’America Latina la naturale valvola di sfogo delle loro pulsioni. Un pugno di nobili e soldati affamati, la cui unica competenza era massacrare nemici, accompagnati da un clero figlio dell'Inquisizione altrettanto bellicoso e di una intransigenza esacerbata a causa della continua lotta contro gli infedeli. Per ragioni storiche, la gran parte dei colonizzatori, oltre che dal regno di Castilla, provenivano dalle regioni del sud della penisola iberica e mostravano maggiore aggressività e necessità di guadagni immediati. Tutto il contrario delle popolazioni del nord che da tempo vivevano in condizioni di relativa pace, occupandosi prevalentemente di commerci.
        
        Questa è la psicologia dei cosiddetti  “conquistadores” spagnoli. In pochi anni, infatti, la popolazione aborigena venne sterminata, e di loro restano solo tracce filologiche, soprattutto nel lessico geografico, zoologico e botanico, e scarsi resti archeologici. Quando tutti gli indios vennero trucidati, iniziò l’importazione dei neri. Il proverbiale coraggio e generosità che contraddistinguono la psicologia del cubano, forse in parte derivano dalla fusione di queste due etnie che colonizzarono l’isola e che continuano a costituirne la parte predominante.
      





      Il 27 di dicembre del 1868 Manuel de Cespedes, un ricco proprietario terriero d’origine spagnola, decise di liberare i propri schiavi proclamandone la libertà nella nuova “Cuba libre”. Questo gesto segnò l’inizio della guerra di liberazione dei cubani dal controllo della monarchia spagnola. Nel 1886, con un Ordine Reale si proclama l'abolizione della schiavitù nell'isola.
        
        Il calvario dei neri d’Africa iniziava al momento della loro cattura. Spesso, durante il trasporto via terra verso i punti d’imbarco, per evitare che si rifiutassero di continuare a marciare, gli veniva mozzata la testa sul posto per convincere gli altri a continuare il cammino. Clarkson, uno storico inglese dell’epoca racconta di marce forzate che arrivavano a coprire in alcuni casi fino a 1200 miglia in condizioni a dir poco disumane. Non è un caso infatti che quasi la metà degli schiavi morisse lungo il percorso, che si riduceva ad un cimitero a cielo aperto frequentato incessantemente da avvoltoi. Spesso succedeva che nei principali punti d’imbarco ci fosse un eccesso di offerta di carne umana, e ciò induceva i mercanti della tratta e il re della tribù di turno, nel tentativo di arginare le perdite, a sopprimere gli esemplari meno trattabili. Nel caso in cui non si riusciva a piazzare parte del carico, gli schiavi dovevano essere sostentati e le spese erano a carico dei capi delle tribù locali che alimentavano la tratta. Questi allora preferivano sopprimere gli esemplari meno prestanti  e forti. Forse la bellezza dei neri cubani dipende da questa immane legge di mercato.
        
       Il metodo più spiccio per disfarsi degli schiavi più vecchi, dei giovanissimi e dei meno commerciabili era molto semplice ed efficace. Venivano legati uno all’altro, imbarcati su delle canoe e scaricati al largo con dei pesi attaccati alle caviglie. 
        L’esemplare ideale doveva avere tra i 15 e i 30 anni, uomo o donna, e se sano e con la dentatura completa, dopo un primo esame, riceveva l’appellativo di “pieza de India”, schiavo commerciabile. Fernando Ortiz racconta nel suo libro “los Negros Esclavos” dell’esame minuzioso a cui venivano sottoposti gli schiavi da parte dei mercanti prima di essere comprati. Oltre alla tradizionale ispezione della dentatura, della pelle e di tutti i possibili anfratti corporei, si obbligava lo schiavo a saltellare, correre, muovere le articolazioni per assicurarsi che non vi fossero imperfezioni che potessero giustificare uno sconto da parte del negriero. Uno studioso francese racconta anche della strana usanza di leccare il mento della “pieza de India” per stabilire, basandosi sulle indicazioni fornite dal sapore del sudore, se lo schiavo fosse in buona salute e capire dalla durezza della barba l’esatta età dello stesso. 

      
        Molti componenti delle tribù dell’Africa occidentale erano convinti che i bianchi, dopo averli comprati e trasportati fino al luogo predestinato, li avrebbero divorati nel corso di pantagruelici banchetti.
        Una volta a bordo, gli schiavi venivano spesso marchiati a fuoco e se si rifiutavano di mangiare gli venivano bruciate le labbra con carboni ardenti. Li si minacciava di  farglieli ingoiare se avessero continuato nel loro intento. Quando poi i venti contrari rallentavano il viaggio e iniziavano a scarseggiare i viveri, diventava inevitabile scaricare fuori bordo parte della mercanzia. Ortiz racconta della testimonianza di un capitano di marina, tale M. d’Arglancey,  ospite a bordo di una nave adibita al trasporto degli schiavi, che vide con i propri occhi il comandante ordinare l’uccisione di alcuni schiavi la cui carne venne poi fatta mangiare al resto del carico per consentirne la sopravvivenza! Di simili casi se ne contano a decine nelle cronache dell’epoca, oltre agli inevitabili stupri collettivi a cui erano soggette, da parte dei marinai imbarcati, le donne nere trasportate. Nei casi di tentativi di ribellione a bordo, i capi della rivolta venivano soppressi, e si costringeva il resto degli schiavi a mangiarne le interiora per dissuaderli dal mettere in atto qualsiasi tentativo di ammutinamento. Molto spesso, gli schiavi decidevano di suicidarsi gettandosi a mare, e per questa ragione, sui lati delle navi, venivano tese delle reti per impedire gesti sconsiderati. A quel punto, molti preferivano lasciarsi morire di fame o di sete piuttosto che arrendersi  al destino che li aspettava. 

        All’inizio dell’800, quando in Inghilterra e in Francia la tratta dei neri d’Africa fu proibita, diventando di fatto illegale, le condizioni di trasporto peggiorarono perchè le rotte verso l’America venivano pattugliate dalle navi dei due governi alla ricerca di contrabbandieri. Le navi usate per il trasporto degli schiavi furono allora sostituite da imbarcazioni più veloci, gli american clippers.
        I commercianti di schiavi, per cause di forza maggiore, dovettero diventare ancora più spietati, e molti corsari nordamericani che avevano combattuto nella guerra del 1812 si dedicarono alla tratta ingaggiando spesso dei combattimenti contro le navi della corona per salvare il proprio carico.
        Una volta giunti a destinazione, gli schiavi erano smistati nelle piantagioni dove li aspettavano nuovi soprusi e violenze.
        
        La vita nei campi di lavoro ruotava attorno alla figura del Mayoral, l’uomo che si occupava di tenere a bada la “negrada” e di farla lavorare duramente e ad ogni costo. Il Mayoral era quasi sempre di razza bianca e costituiva l’anello di congiunzione fra gli interessi dei ricchi proprietari terrieri e gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni. La sua spietatezza ha riempito migliaia di pagine di racconti e cronache dell’epoca, e sopravvive ancora nelle tante telenovelas che continuano ad essere prodotte in America Latina e narrano in chiave popolare questa triste pagina della storia del continente.  A volte i latifondisti mostravano più spirito "umanitario" del Mayoral, specialmente durante il periodo del raccolto. Dovendone controllare direttamente il buon andamento, riuscivano ad arginare lo spirito violento e i rigori imposti dal Mayoral, arrivando perfino a perdonare gli schiavi, risparmiandogli così severissime punizioni. Sottoposto al Mayoral, esercitava il proprio potere il Contramayoral, figura ben più temibile del suo quasi parigrado bianco. Di razza nera, apparteneva spesso a tribù un tempo ostili a quella della “negrada”, e mostrava nei confronti degli schiavi una ferocia implacabile e una insaziabile sete di vendetta.
        Fernando Ortiz racconta anche che, durante le feste comandate, i neri venivano spesso obbligati a ballare, cantare e suonare i “tambores” così da mantenere vivo il ricordo della propria terra e delle tradizioni, evitando l’eccesso di nostalgia che avrebbe potuto influenzare negativamente il loro sforzo produttivo. 

        Accadeva anche che i “tambores” venissero usati  per comunicare con gli schiavi delle piantagioni limitrofe. Ciò indusse i proprietari terrieri a limitarne l’uso facendoli sostituire con le meno rumorose  “tumbanderas”. Il ballo sfrenato e la musica ritmica sono sopravvissuti nella cultura afrocubana per più di cinque secoli forse anche grazie a questa fortuita serie di coincidenze che hanno permesso l’evoluzione della inimitabile musica cubana, che ancora oggi costituisce il vero spirito del popolo.
      
   
Le punizioni inflitte agli schiavi nelle piantagioni meritano una attenta analisi perché dimostrano quanto alti possano essere i picchi di ferocia che la bestia umana riesce a raggiungere. Esisteva un preciso codice e una esatta scala di valori a seconda dei vari livelli di gravità dell’infrazione commessa dagli schiavi. Ad ogni colpa o delitto corrispondeva una punizione ben definita. Si trattava di un sistema penale organicamente articolato.  Ed  era imposto in maniera quasi scientifica nel triste tentativo di commisurare i reati alle pene. 
        

        Di solito era il Contramayoral che si occupava direttamente di infliggere la pena allo schiavo rivoltoso. Oltre ai ceppi e alla famigerata garrota che veniva usata per le esecuzioni capitali, lo strumento di tortura privilegiato era la frusta. Nella province del sud dell’isola veniva usato un ramo d’albero che ancora oggi si chiama “matanegros”.
        La pratica della flagellazione aveva numerose varianti a seconda della gravità del crimine. La pena più lieve era chiamata “novenario”. Ortiz racconta che lo schiavo veniva sottoposto a una serie giornaliera di nove frustate alla schiena per nove giorni consecutivi, aggiungendo che tale pena non costituiva un pericolo per la vita del condannato. Per casi più gravi esisteva il “bocabajo llevando cuenta”, pena molto più rischiosa per la sopravvivenza dello schiavo. Il condannato doveva non solo subire le frustate del Contramayoral, ma era anche obbligato a contarle, e nel caso in cui commetteva un errore, si ricominciava dall’inizio.  La vita dello schiavo in questo caso dipendeva dalla clemenza di chi infliggeva la pena perchè, il più delle volte, risultava impossibile mantenere la concentrazione e continuare a contare senza commettere errori. Questa punizione poteva anche essere raddoppiata, trasformandosi così nel  “bocabajo llevando cuenta doble”.  Allora i Contramayoral erano due e non era più necessario caricare la frustata, dando così un attimo di respiro al condannato. Mentre uno colpiva, l’altro era già pronto per il colpo successivo, senza soluzione di continuità.
        
        Esistevano poi altre varianti del “bocabajo”. Quella riservata alle donne incinte era sicuramente la più crudele, ma almeno aveva come obbiettivo la salvezza del nascituro che costituiva sempre un capitale da non disperdere. Nel caso in cui il Contramayoral avesse calcolato male le distanze, la frusta, invece di fermarsi sulla schiena, avrebbe potuto inavvertitamente colpire il ventre della donna, destinando a morte sicura il bambino. Si escogitò quindi un sistema perfetto per preservarne la vita. Dopo aver scavato per terra una buco che potesse contenere il ventre della donna riparandolo da ogni rischio, si procedeva certi che se anche questa fosse morta, almeno il figlio sarebbe sopravvissuto. Spesso i proprietari terrieri concedevano la libertà allo schiavo che aveva avuto più di dieci figli.
        
        La pianta della canna da zucchero accompagna la storia dei neri afrocubani in maniera inesorabile marcandone ogni tappa della loro vita, nella sofferenza estrema ma anche, per fortuna, nella gioia dell’ubriacatura. A proposito della simbiosi tra i neri e il rum, anche nel singolare sistema penale che vigeva nelle piantagioni, le melasse e i prodotti della canna svolsero un triste ruolo che avvalora l'idea di cui sopra. 
        In alcuni latifondi, il “guarapo”, prodotto della prima spremitura della canna, veniva fatto bollire e poi versato sulla testa dello schiavo che moriva soffrendo in modo inenarrabile. In altri era in voga la pratica di seppellire lo schiavo riottoso fino al collo in una fossa, cospargendogli la testa di melassa perché gli insetti potessero lentamente divorarlo. In un’altra variante del supplizio, si ricopriva il corpo dello schiavo di zucchero e lo si legava a fianco di un formicaio, condannandolo anche in questo caso ad una morte atroce.
        
        La fuga era quindi l’obbiettivo naturale che gli schiavi perseguivano con tenacia ferrea. Quando riuscivano a dileguarsi, si rifugiavano nelle zone montagnose e impervie delle “sierras” dove si procuravano l’indispensabile per sopravvivere. A quel punto lo schiavo diventava “cimarron, schiavo fuggito dalla piantagione e costretto per sempre a vagare in cerca di cibo e acqua, eternamente braccato dai “rancheadores”, i cacciatori di schiavi al soldo dei proprietari terrieri. Il loro compito era di rintracciare i “cimarrones” e abbatterli perché questi, oltre a costituire con le loro frequenti incursioni e razzie un pericolo per il latifondo, potevano indurre gli ex-colleghi alla fuga. Nel caso in cui le loro gesta si fossero protratte troppo a lungo, avrebbero persino potuto accendere, con l’alimentarsi del loro mito, le polveri di una rivolta. Quando il “rancheador” uccideva il “cimarron” , gli tagliava le orecchie che consegnava al proprio datore di lavoro dimostrando che il compito era stato eseguito ed evitando di dover trascinare fino al latifondo i corpi degli schiavi fuggitivi.
        A volte i “cimarrones” si organizzavano in piccole comunità chiamate “palenques” e riuscivano perfino a rintuzzare gli attacchi dei “rancheadores”.
       
      
     
  
      A scandire il  ritmo della vita dei neri e a condizionarne costantemente l’esistenza c’è sempre stata la pianta della canna da zucchero, i suoi derivati e il suo prodotto più raffinato, il rum.  Tutto il loro spirito vitale nel Nuovo Mondo sembra trarre origine ed emanare da questi elementi e le loro nuove tradizioni, maturate dopo l’esodo forzato a Cuba, li ripropongono incessantemente in ogni riferimento, sia nel caso delle immani sofferenze che l’epoca schiavista inflisse loro che nelle occasioni di divertimento, quando il rum diventa l’insostituibile componente che fa scattare le giuste molle del semplice piacere del ballo e del canto sfrenato. Non esiste spettacolo più trascinante della vista di un gruppo di neri afrocubani, in preda ai fumi del rum, che cantano e si dimenano al ritmo dei “tambores”, soprattutto se si pensa a ciò che sta dietro a quelle danze e a quei ritmi, e a cosa esprimono i tormenti che li hanno originati. 

        Forse si tratta di ingenuo sentimentalismo tipico dell'occidentale attratto dall’esotismo di certe manifestazioni popolari, ma non si può negare l’emozione per la profondità 
e la forza di questa musica.  La Rumba , la danza del riscatto e della liberazione dalla schiavitù fa capire che per i neri afro-cubani, da più di 500 anni, la prima valvola di sfogo ai sogni frustrati è costituita dalla musica e dal ballo, che nel parossismo arriva a simulare l’atto sessuale in modo unico, quasi ferocemente e senza limiti corporali, mantenendo al contempo una levità irraggiungibile. 
        

        
        I neri afrocubani sono l’essenza di questa terra e ne rappresentano la parte più viva ed intoccabile, e non è un caso che in tutte le manifestazioni culturali a Cuba la loro presenza sia dominante e le loro tradizioni trabocchino da ogni dipinto, da ogni parola scritta nei romanzi, dalle poesie, dalle canzoni popolari, e tutto ciò nonostante non costituiscano maggioranza numerica nel paese. E’ una cultura che nasce dalle viscere dell’uomo, dalla grande Mother Africa che ci ha tutti generato, e per questo riesce a toccare le nostre corde più profonde ed intime, che spesso tendiamo a nascondere e per cui a volte proviamo perfino vergogna. Cultura semplice come dice il mio amico Augusto, semplice, poderosa e resistente a tutti i tentativi di annientamento che hanno messo in atto nel corso dei secoli i bianchi che hanno soggiogato gli afrocubani.