sabato 21 luglio 2018

ILSUICIDIO A CUBA


Ci sono mille modi di suicidarsi: Balzac scelse il caffè, Verlaine l’assenzio, Rimbaud l’Etiopia, l’Occidente la democrazia, e Guevara la giungla.”
Jean Cau

Tutti gli uomini sani hanno pensato al suicidio.”
A. Camus

All'Avana, nel centro del Vedado, esiste un edificio di tredici piani - quando si dice la cabala - costruito nel 1927 che ha una lugubre storia.
Infatti, dalla fine degli anni '70 ad oggi, ben quindici persone si sono suicidate gettandosi dalle finestre del vecchio Aparthotel Palace. 



Si conta anche un indefinito numero di tentativi di suicidio per fortuna mai andati a buon fine, ma qui entra in gioco la logica dei punti di vista.
In ogni caso, considerate le circostanze, l'edificio ha ormai acquisito il soprannome di "Palazzo dei Suicidi". 


Va aggiunto che altri palazzi tentano
 invano di contendere il primato di questa infausta classifica. 

Questi però non riescono a vantare più di due o tre casi nell'arco di quarant'anni. 
In breve, non c'è partita.

Gli inquilini, dato che gli aspiranti suicidi provengono da altre zone della città, almeno si trovano al riparo da ogni coinvolgimento emotivo. 
Hanno poi fatto il callo a tal punto che quando nei paraggi si aggirano quelle che ormai tutti definiscono “facce da morto”, all'istante le riconoscono e avvisano la polizia per evitare il peggio. 
Molti si chiedono il perché di tale preferenza che quasi rasenta l'ossessione. 
Una delle ragioni riguarda le condizioni dell'immobile.
Le finestre dei corridoi comuni sono in pessimo stato e da anni prive di infissi. E' semplice sporgersi e lanciarsi nel vuoto, e tredici piani garantiscono innumerevoli varianti e traiettorie perché l'edificio si affaccia su tre lati. 



Esiste poi l'insondabile spirito di emulazione, altrimenti detto Effetto Werther, che in questi casi ha un ruolo chiave. 

Suicidarsi lanciandosi nel vuoto dal famigerato Aparthotel Palace pare eserciti un potere d'attrazione unico. 
Si va dal ragazzino di dieci anni che si butta dal quinto piano perché non ha passato gli esami a scuola alla paziente del limitrofo ospedale oncologico che decide di farla finita perché le resta poco da vivere. C'è poi il caso di un macellaio che, dopo aver dato sette coltellate alla moglie, con le mani ancora grondanti sangue, si getta dall'ultimo piano e atterra sul terrazzo di sotto miracolosamente vivo. Morirà dopo mezz'ora, nonostante gli immediati soccorsi dei medici del vicino ospedale.

Molti si chiederanno come sia mai possibile che a Cuba la gente s'ammazzi; questa è la 
isla bonita y feliz nonostante tutto. Però, in barba ad ogni comune aspettativa, qui hanno il primato del più alto tasso di suicidi del continente. 


Chiunque a questo punto penserebbe che la condizione economica e la supposta mancanza di libertà siano la prima ragione dell'epidemia. 
Nulla di più inesatto! Durante il "Periodo Especial" seguito al crollo del Muro di Berlino, quando i sovietici ritirarono i sussidi economici e lasciarono sprofondare i cubani nella peggiore delle crisi, il numero dei suicidi inaspettatamente si ridusse.
Secondo gli studiosi, 3 suicidi per 100.000 abitanti dovrebbero già essere fonte di allarme. Negli anni '80 a Cuba il rapporto era di 23 ogni 100.000 persone!
Nel periodo di massima crisi economica e sociale degli anni '90, i suicidi erano scesi a 17 per ogni 100.000 abitanti.

Si ha l'impressione che neanche gli analisti più accreditati riescano a spiegare tale tendenza. Alcuni hanno perfino teorizzato che, quando sai che sta per arrivare un periodo buio, fai tutti gli umani sforzi per sopravvivere. 

Esiste poi un catalogo dei metodi utilizzati per togliersi la vita.



I più comuni sono l'impiccagione, l'avvelenamento e il fuoco. Alla fine, però, si usa ciò che si ha a portata di mano. In provincia, dove in molte zone ancora si cucina con i fornelli a cherosene, il fuoco è più in voga; nella moderna Avana, si preferisce impasticcarsi.

A questo punto la curiosità scomoda la storia che, come sempre, aiuta a comprendere. 
Nei primi anni della colonizzazione, gli indiani Taino frustrati nei loro tentativi di resistere agli invasori spagnoli e costretti a lavorare nelle piantagioni (non bisognerebbe mai scordare che furono loro i primi schiavi d’America), in molti casi pensarono che il suicidio fosse la migliore soluzione possibile e l’attuarono massicciamente. 


Nelle scuole elementari cubane da sempre si studia la figura del capo taino Hatuey a cui, prima di essere giustiziato, venne intimato di convertirsi al cristianesimo per ottenere il paradiso. Hatuey rispose chiedendo se in paradiso avrebbe incontrato gli spagnoli. Quando gli fu detto di sì, affermò che preferiva le fiamme dell'inferno alla vista della più crudele stirpe della terra.


Anche il numero dei suicidi all’interno della comunità degli schiavi neri era abnorme. 
Specialmente durante i primi anni della tratta. Il fenomeno, anche in questo caso, diventò una vera epidemia e i suicidi arrivarono ad essere quasi il doppio degli omicidi - quando si arriva ad un grado di impotenza e di malessere così insopportabile, si tratta dell’unica arma. Tra l'altro, molte etnie africane credevano che morendo in terra aliena si rinascesse nella propria, e ciò forse indusse la gran parte di loro a rinunciare alla vita.


I negrieri, dal canto loro, esausti ed altrettanto impotenti, tagliavano la testa, le mani e i piedi ai suicidi in un estremo tentativo di convincere gli altri schiavi che non era il caso di rinascere acefali o irrimediabilmente menomati, anche se la terra che gli avrebbe ridato i natali era la stessa della loro prima vita vissuta in piena libertà.

C'è poi l'esempio che tutto compendia. 
José Martí, uno dei più grandi scrittori cubani e latinoamericani dell'800, attivista politico, rivoluzionario, Padre della Patria ed Eroe Nazionale,


a tal punto da essere definito l'Apostolo, malato ormai da tempo, si lanciò al galoppo contro le truppe spagnole, secondo molti cercando la morte.


Tutti pensano ai cubani come a un popolo da sempre devoto ai sensi e all'esistenza. Il refrain più comune da queste parti recita che la vita è breve e va vissuta celebrando ogni gioia, abbandonandosi al divertimento finché le forze ci sostengono, e anche oltre. Nel sentire comune, l'isola è uno dei luoghi più vitali della terra, non certo la culla del suicidio. 


Eppure, pare sopravvivere una vera e propria cultura dell'annientamento, una tradizione che rimonta perfino alla Cuba precolombiana. 
Può darsi che il suicida compia solo un ultimo e disperato tentativo di farsi notare dal mondo circostante. Il suo, quindi, non è che un inno alla vita, un urlo alla ricerca di visibilità. Forse qualcosa che la massificazione in salsa caraibica nega a chiunque in modo indistinto? 
Qui dove perfino le star della TV e del cinema prendono l'autobus come tutti, e nessuno l'importuna per un autografo o un selfie perché sono solo dei lavoratori come gli altri.
Come spesso succede, l'isola e i suoi abitanti sfuggono ad ogni possibile catalogazione. Si distinguono dal resto del mondo, rendendo questa terra un unicum planetario. 

C'è anche chi, sfruttando l'inesausta vena creativa che è risorsa tipica di questo popolo, è riuscito a creare una poetica del suicidio che viene raffigurata in questa installazione artistica al centro della parte più antica dell'Avana.