martedì 19 maggio 2020

IL "RICATTO SOCIALE" A CUBA E LA COERENZA DI CHE GUEVARA


«Nelle vene di mio figlio scorreva il sangue dei ribelli irlandesi»
Ernesto Rafael Guevara Lynch


L’ombra più scura che si allunga sui rapporti umani tra residenti stranieri e cubani è costituita dall’onnipresente figura del “ricatto sociale”.
Il nostro senso di colpa nei confronti dei locali è sempre vivo e presente in ogni scambio, e si acuisce in maniera speciale quando si comprende di godere di eccessivi privilegi in terra straniera.

In ogni altro paese in cui si risiede si è sempre ospiti, e si sta bene attenti a non urtare la suscettibilità degli abitanti del luogo. Nessuno si sognerebbe mai di criticare la qualità delle portate che ci vengono offerte in casa d'altri.                                         
A Cuba, gli stranieri, fino a pochi anni fa potevano fare e dire cose proibite ai cubani: risiedere in un hotel, affittare una macchina o uno yacht, comprare una casa, navigare in rete senza impedimenti, impiantare un’attività imprenditoriale, spostarsi da una città all’altra senza dover spiegare a nessuno la ragione del proprio viaggio, entrare ed uscire dal paese liberamente, vedere la televisione satellitare, perfino criticare il regime e i costumi del luogo. 
Tutti privilegi che venivano negati ai cubani. 

In tale situazione è ovvio che uno straniero minimamente sensibile si senta almeno un po’ scomodo. Solo pochi anni fa il governo ha cambiato le leggi equiparando anche i cittadini cubani.


Vivere in un paese in cui non si possono condividere appieno con la popolazione locale tutti i diritti più scontati rende squilibrato ogni rapporto umano. Si arriva anche a provare un certo imbarazzo, che in alcuni casi si trasforma addirittura in vergogna. 
E’ anche certo che la colpa di una tale anomalia non sia imputabile solo ad una scelta di segregazione operata dai vertici.                                                                                   
In ogni caso, godere di diritti negati a chi dovrebbe esercitarli almeno tanto liberamente quanto te porta a riflettere a fondo, e si arriva a pensare che la vera vittima di questo apartheid caraibico non siano i cubani, ma proprio i residenti.                                                                                                          
Il nostro isolamento in questo strano olimpo delle franchigie ci fa sentire colpevoli e certi che, vivendo in tale situazione, risulta impossibile, anche a causa delle astronomiche distanze create dalla differenza di potere d’acquisto, imbastire relazioni umane e di amicizia spontanee e disinteressate.                                                                     
Eppure, incredibilmente, si riescono a stabilire contatti che sembrano trovare negazione nella logica. Bisogna saper giocare sul filo dell’ironia e far capire al proprio interlocutore, sin dall’inizio del rapporto, che si è ben coscienti del peso di tale condizionamento. 

Se si trova il giusto equilibrio, si possono creare e coltivare amicizie che portano frutti inaspettati e coinvolgenti. Se invece si perde di vista la costante presenza del “ricatto sociale” o se, ancor peggio, come succede a molti, non la si percepisce assolutamente, la prima impressione è che questa terra sia il nuovo paradiso delle relazioni umane. 
I rapporti sembrano più fluidi e “semplici” che mai, e pare scorrano senza ostacoli perché non esiste alcun contraddittorio. 
Il perno di tutto è il potere del denaro e il privilegio dell’occidentale che rende il cubano, pur con l’orgoglio che lo contraddistingue, quasi sottomesso. 

Poi ci sono alcuni stranieri, per fortuna pochi, che addirittura si convincono di essere dei semidei e girano impettiti sfidando ogni ragione, pensando di poter comprare tutto, perfino la considerazione dei locali che sembrano assecondarli in ogni occasione, ma appena lontani ridono di loro.

Un amico cubano e cittadino del mondo una volta mi ha detto in modo molto crudo e senza preamboli che secondo lui i cubani sono un popolo di ipocriti. 
Molti dicono che a Cuba tutti hanno una doppia faccia, una doppia morale: quella ufficiale e quella privata, e che questo vale a tutti i livelli, anche i più alti nella scala del potere.


Eduardo Galeano diceva che in America Latina le parole e i fatti che ne dovrebbero conseguire si incontrano raramente e quando succede, nel migliore dei casi, si stringono la mano e proseguono frettolosamente ognuno per la propria strada. 
Secondo molti, in questa parte di mondo, mentre si afferma una cosa, si pensa l’esatto contrario.                                                                                                                           
Galeano diceva anche che uno dei pochi figli del continente latinoamericano che ha cocciutamente perseguito il primato di consequenzialità tra idee ed azioni è morto proprio perché divenne vittima di questa singolarità. 
Che Guevara stesso ripeteva sempre che la sua caparbietà e coerenza gli derivavano dalla madre che aveva origini irlandesi.


A Cuba, nei rapporti tra locali e residenti stranieri, molto dipende da come ci si propone, da quanto si mettono in chiaro le regole del gioco. 
L’arma del “ricatto sociale”, però, quasi non viene brandita dai cubani. 
Non capita mai di sentirsi dire: “Tu non parlare perché sei straniero”.                 
Sarà una strategia o un netto rifiuto di trattare la questione, forse nel tentativo inconscio di rimuoverla per non sentirsi uomini di seconda serie rispetto a noi. Non so dire. In ogni caso, il peso dei privilegi, se la tua coscienza non è in catalessi, lo avverti da solo senza che nessuno te lo ricordi.