domenica 16 settembre 2018

AVANA CHE CAMBIA




"Le nazioni più grandi si sono sempre comportate da gangster, e le piccole da prostitute"
Stanley Kubrick

“Gli Americani non capiscono che la nostra nazione si estende ben oltre Cuba per raggiungere tutta l'umanità.”
Fidel Castro



L'Avana è una grande capitale latinoamericana con più di tre milioni di abitanti. Una politica centralizzata che prevedeva di limitare l’espansione urbana nell’isola ed evitare lo spopolamento delle zone rurali è riuscita a preservarla.


Basta pensare a megalopoli come Città del Messico - l'area metropolitana conta 25 milioni di abitanti, 20% dell’intera popolazione, Lima (10 milioni) o Bogotà (8 milioni). 
Questo sistema ha evitato lo sventramento della zona storica per far posto a nuovi edifici, e ne ha mantenuto intatto l’incanto. 


La Revoluciòn però, oltre a tutelare, altera i contorni sociali della città. L’Avana aveva i suoi confini ben delineati. Quartieri per ricchi, quartieri per classi intermedie e per i poveri. 
I neri vivevano nei solar, equivalente delle case di ringhiera di Milano o di altre città europee, e nelle baracche di legno. I bianchi negli appartamenti e i più ricchi in case con giardino. 

Nei primi anni ’60, dopo il primo esodo verso la Florida, ci fu un rimescolamento che rese la città un caso unico. 
Le residenze dei bianchi vennero occupate da gente povera o assegnate loro dalla Rivoluzione. Si può immaginare una condizione di mobilità sociale che ha impatto enorme su costumi e abitudini di tutti gli abitanti. 

Ma l’Avana non può temere fulminei cambi di assetto di sorta. 
La città si è sempre adattata a tutte le situazioni più impensabili. Molti credono che la capacità degli habaneros di accomodarsi alle contingenze risalga al periodo di profondissima crisi economica seguito al ritiro dei sussidi sovietici dopo la caduta del Muro. 
Magari, nei primi anni ‘90, le arti degli habaneros si saranno affinate. Ma è  certo che la città nascosta, quella degli angiporti e dei nullatenenti, ha vissuto di piccoli traffici e contrabbando per quattro secoli. Di contatti con i marinai delle flotte di tutto il mondo. Qui non c’è oro, né risorse preziose, solo la abilità di negoziare e di vivere sempre all’erta.


La capitale, negli anni prima della Revoluciòn, era uno dei posti dove si concentrava, grazie ad ovvi privilegi, una delle élite più danarose del pianeta. 
Quando in Italia, nel primo dopoguerra, andavamo a dorso di mulo, all’Avana circolavano le auto con servosterzo. Il frigorifero, il condizionatore d’aria, la lavatrice e la lavastoviglie si vendevano in tutti i centri commerciali.


Gli anziani raccontano che la Buick, la Chevrolet e perfino la Cadillac lanciavano i nuovi modelli di auto prima a Cuba e poi a New York.
L’epopea dei mafiosi americani all’Avana è stata celebrata in mille salse.



Già negli anni ‘20, Al Capone aveva messo piede in città. La sua casa a Varadero è ancora lì sulla spiaggia, vicino quella di Dupont.







I mafiosi italo-americani sono stati per tanto tempo i veri padroni della economia dell’isola. Lucky Luciano, tramite il suo luogotenente Meyer Lansky, ha controllato per anni gran parte delle attività illegali dell’isola. Si dice anche che Sinatra avesse delle partecipazioni in alcuni alberghi e bordelli della città.
Le famiglie erano quattro: Barletta, Trafficante, Battisti e Luciano con Lansky.
Il gruppetto aveva diverse banche, l’esclusiva della General Motors per l’isola, un paio di giornali a tiratura nazionale, il secondo canale della Tv nazionale, tutti i casinò, quasi tutti i grandi alberghi, il controllo totale del racket della prostituzione, della cocaina e molto altro. E pagava al dittatore Batista una bella tangente per gestire i propri affari. 
L’intero Stato cubano era al servizio della mafia. E molte amministrazioni USA hanno pensato più volte di comprare l’isola per annetterla.


Si può facilmente immaginare cosa fosse l’Avana a quel tempo. Un paradiso per tutti i delinquenti americani. E forse il posto dove più si spendeva al mondo in beni di lusso. Tra latifondisti e malavitosi, il denaro speso a cuor leggero era un fiume in piena perenne. E la grande parte della popolazione stava a guardare cercando di sopravvivere.


Ho letto tempo fa in un giornale un’intervista con la responsabile di quell’epoca, per il mercato americano, della casa di moda Christian Dior. 
Raccontava che le mogli e le amanti degli Azucareros, dei latifondisti e dei gangster dell’Avana, al momento dell’uscita della collezione Primavera-Estate della casa, facevano a gara per accaparrarsene l’esclusiva planetaria, cosi da essere le sole a poterla sfoggiare durante le feste nei club della città. Tutto ciò costringeva Dior a ridisegnare l’intera linea da mettere in vendita.
Ci si può rappresentare quanto denaro fossero pronti a pagare i ricconi dell’epoca per assecondare le proprie compagne.


Poi, improvvisamente, con l’arrivo dei Barbudos, la città frena il suo impulso consumistico e si adegua alla realtà della tecnologia di importazione sovietica. 





L’Urss sostituisce gli Usa nelle forniture. E dato che i prodotti sovietici da esportazione destinati all’isola non erano certo avanguardia, la frenata si accompagna ad una regressione tecnologica solo parzialmente compensata dalle forniture militari.
La capitale è forse l’unica città al mondo che passa, nell’arco di pochi anni, da una condizione di culmine di consumi a uno stato di colonia o satellite sovietico, con tutte le relative conseguenze.

Se ne sentono di tutti i colori su questa città dal cuore grande come un bordello di mille stanze. Non si vive mai veramente all’Avana perché è lei che abita in te. Se parti, non la lasci, perché ti resta sempre dentro e non ti abbandona mai. E’ anche il posto, come dicono da queste parti, dove ti senti libero come un maiale - i suini qui sono visti come i più spensierati fra gli animali.

L’Avana, città delle "mille lenzuola bianche che sventolano sui balconi", agitate dalla brezza tropicale che le asciuga in pochi minuti. Città senza stagioni, ostaggio di un'unica incessante estate interrotta solo dai cicloni. Senza squisiti giochi di luce tipici delle nostre stagioni intermedie, ma con tramonti e nubi di una bellezza unica. 
Molti la idolatrano e altri la odiano. Tanti pensano che Cuba è l’Avana e il resto non conta. Forse perché le metropoli sono le menti e i cervelli delle nazioni.

Per quello che mi riguarda, la città l’ho vista cambiare a grande velocità negli ultimi due decenni.
 Nei primi anni 90 la capitale era per noi europei una prateria sconfinata di nuovi odori, sapori, suoni, immagini, visi, costumi. Fino ad allora si andava lì solo come “turisti politici”. Scortati dai dignitari del posto si poteva vedere solo quello che loro mostravano. 
Dal momento dell’apertura al turismo di massa la prateria si è potuta scorrazzare in libertà e con tanta eccitazione. Noi occidentali cerchiamo sempre nuove frontiere nel cinema, nella letteratura, nella musica, anche se spesso non conosciamo neanche i contorni delle nostre. Ma importa poco.


In quel momento storico, il nostro ammaliamento è stato senza riserve. E per gli abitanti del luogo è successo lo stesso. Chi di loro aveva mai visto un europeo, se non quei pochi privilegiati di regime che per ragioni diplomatiche o commerciali potevano viaggiare? 
Il nostro modo di camminare, gesticolare, vestire e pensare era una novità assoluta. 


E’ stato un periodo di fitto scambio di idee che ha creato una atmosfera portentosa. In ogni settore la contaminazione è avvenuta con grande gioia e soddisfazione reciproca. Dalle arti alle lettere, fino alle rispettive visioni del mondo. In America Latina si parla di “Transculturaciòn”. Di solito è la cultura più sviluppata che assorbe la meno sviluppata. Ma chi può concedere patenti o primati in questo caso?

In ogni sorte, quella cubana è ben salda e piantata sulle proprie radici e correva pochi rischi di assorbimento. Il governo la alimenta da quasi sessant’anni secondo modelli imposti. Ma almeno da il senso di “Memoria” ad un popolo. Anche se un unico senso non sta mai in piedi da solo.


La città però era viva. La notte correvamo da un posto all'altro per sentire musica, vedere spettacoli e partecipare a feste estemporanee. Ogni attimo perso sembrava sprecato. Tutti i viaggiatori stranieri si ricordano di quel periodo come di un incantesimo. Si dormiva di giorno e si viveva di notte nei mille locali e soprattutto per strada.

In Europa si diffondevano in modo morboso solo i racconti su donne che si offrivano per pochi soldi. Ma non era solo quello. E in ogni caso, anche quello era parte dell’incantesimo. 
Forse, a pensarci bene, le vere vittime di questo commercio erano i molti turisti europei preda di orde di cavallette che li spremevano come limoni, per poi lasciarli alla loro solitudine infinita.
La apertura aveva dato nuova speranza alla città. Sembrava che qualcosa potesse cambiare.


Magari, più in la nel tempo, sapremo se il prezzo assegnato dalle habaneras alla propria carne da dare in pasto ai visitatori era congruo.

Qualcuno al posto loro ha improvvisamente deciso che non lo era e tutto è cambiato. Non credo importasse a nessuno che migliaia di ragazze in città e in tutta l’isola si concedessero ai turisti. La morale sessuale qui non è mai stata materia di interesse. Il rischio era un altro: la contaminazione della cultura rivoluzionaria. E allora è iniziata la crociata contro il sesso e relativa corruzione dei principi cardine della Revoluciòn.

E’ ovvio che i vertici culturali cubani e stranieri, nonostante le chiusure decise dall’alto, abbiano continuato a dialogare incessantemente e senza intralci. Chi ha invece come confini il mondo della strada si è visto privare di questa valvola di sfogo. E la cultura popolare a Cuba è sempre stata il propellente di ogni movimento, anche il più aristocratico. 
E’ quindi mancata o è stata frenata una fonte di ispirazione esuberante. E la città ha perso brio.
Dopo la visita di Obama è sembrato che si dovesse procedere a passi spediti verso l’americanizzazione dell’isola. Con Trump il processo si è arenato. 

Purtroppo, in questi ultimi anni, l’influenza della subcultura nord americana di derivazione musicale e figlia della più stupida filmografia sta contaminando le nuove generazioni che crescono col mito del dio dollaro. 
E la tipica cultura dell’uomo vincente contrapposto al perdente prende sempre più piede.
Lo spirito di competizione, spinto al punto da sopraffare il prossimo, inclinazione poco coltivata da queste parti dove la solidarietà è ancora regina, lentamente si afferma e contribuisce a cambiare lo sfondo contro cui si muove il paese. 
La Revoluciòn era riuscita in parte a seppellire questi valori. Adesso che stanno riemergendo è sempre più difficile arginarli. 
E non è un caso che molti cubani riconoscano ancora l’europeo medio come più affine al loro modo di essere. 
Dopotutto, la Spagna è sempre Madrepatria e i russi sono stati qui per trent’anni.
Eppoi, i cubani, non sono interamente preda o vittime del tragico fatalismo latinoamericano. Basta pensare al vicino Messico. 
Sono un popolo ben istruito e con un livello culturale medio che non ha nulla da invidiare a nessun altro paese al mondo. Sempre ben informati su tutto quello che gli succede attorno. Ti può capitare di parlare per ore col benzinaio sotto casa della situazione in Palestina, della politica estera americana o del futuro della Cina. Perfino di letteratura russa o latinoamericana. 
Per fortuna, ci vorranno molte generazioni prima che il tipico spirito critico cubano venga diluito nel nulla della omogenizzazione culturale che minaccia tanti paesi in questo continente e nel resto del mondo. 
Non va mai dimenticato che il cubano ha studiato e si è formato per diventare “uomo nuovo”.