https://i.postimg.cc/4xwVWRZs/161126145740-fidel-castro-and-mandela.jpg Contrattempo all'Avana: 2019

lunedì 30 settembre 2019

MAQUENDO, IL MIO AMICO ALL'AVANA


Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme.
Charles Bukowski

Facile credere nel paradiso quando si conosce bene l’esistenza dell’inferno.          
Anonimo


Maquendo è il derelitto dell’Avana per eccellenza, il peggiore dei reietti, ma ha anche un proprio passato glorioso.
E’ stato fra i più grandi jineteros dell’Avana Vecchia prima di cadere in disgrazia per amore, droga e mille altre ragioni.
Maquendo è anche uno strumento indispensabile per capire la Cuba degli ultimi vent’anni. Più di ogni minuzioso studio di socio-politica, più di ogni trattato economico o ideologico, la sua storia spiega, almeno in parte, la natura vera dell’esperimento cubano in salsa caraibica.

Il Nostro è stata la prima persona che ho incontrato quando sono arrivato all’Avana nel novembre del 1995. Mi ha aiutato a trovare un posto dove dormire in pace senza che mi rubassero niente. Una comunissima relazione di interesse mutuo. 
Dalla mia frequentazione Maquendo traeva indubbi vantaggi anche se, come è sempre stato nel suo stile, ti lasciava convinto di non averti poi sottratto niente di più di una piccola commissione sull’affitto della casa o sulla cena al ristorante. 
Nei primi tre giorni in città mi avevano ripulito di trecento dollari e di quasi tutti i vestiti, e non doverlo temere era per me un regalo del cielo.
La prima volta che l’ho visto ciondolava davanti la porta di una delle tante case d’affitto da lui gestite. I proprietari gli garantivano laute commissioni in base al numero di turisti che riusciva a procurare.
Nel suo periodo d’oro, Maquendo è stato il punto di riferimento fisso sia di chi più volte all’anno volava all’Avana a fare fiesta che dei proprietari di piccoli ristoranti e affittacase della zona. Ma già a quell’epoca c’era un lungo passato alle sue spalle.

Nel 1996 aveva 37 anni, e 15 li aveva trascorsi entrando e uscendo dalla galera di Puerto Boniato, il carcere di Santiago, la città dove è nato.
La prima volta che lo arrestarono lo condannarono a 7 anni per traffico di valuta. Possedere dollari era un crimine punito severamente dalle leggi locali, figuriamoci trafficare e scambiare dollari con pesos e viceversa.
I dollari a quei tempi servivano ai diplomatici e ai turisti, come in Urss e nel blocco sovietico prima della caduta del Muro, per comprare nei negozi a loro riservati le merci che con la valuta nazionale non si potevano ottenere.

Dopo 5 anni Maquendo è uscito di galera, ma appena fuori si è fatto di nuovo arrestare per un piccolo furto con scasso in una casa da dove, con 2 amici, è scappato con pochi vestiti e una vecchia radio. Ad alcuni isolati di distanza, la polizia li ha bloccati mentre cercavano di filare via sui tetti della città. 
Questa volta gli sono toccati 4 anni di galera e ha dovuto scontarli tutti perché recidivo. Gli altri sei li ha fatti a più riprese per rissa e resistenza alla polizia. 15 in tutto, dai 18 ai 35, con qualche breve intervallo tra una condanna e l’altra.
Dopo questo periodo si è trasferito all’Avana, giusto per cambiare aria.

L’Avana vista da Santiago che si trova nel profondo sud dell’isola, soprattutto se sei uno spiantato, è un po’ come era l’America per noi siciliani a inizio secolo scorso, o come è ancora oggi Miami per i cubani in generale. La promessa di una nuova opportunità, la speranza di fare un salto in termini di qualità di vita. 
Maquendo era ormai sotto il tiro della polizia, e a Santiago lo spazio di manovra per un pluripregiudicato si riduce all’osso. Risulta impossibile organizzarsi per mettere a segno perfino la più piccola truffa o traffico. Con quel curriculum alle spalle, appena fai mezzo passo falso ti mettono dentro come minimo per 5 anni. Allora è meglio prendere il largo.
Nella capitale è più facile imboscarsi o sparire per un po’ se le cose vanno male.

Quando Maquendo arrivò all’Avana poteva contare sul sostegno di alcuni amici di Santiago. La città è piena di 'Palestinos', così gli 'Habaneros' chiamano gli immigrati di Santiago che non avendo arte né parte si arrabattano in mille modi per sopravvivere. Alcuni fanno anche fortuna. Riescono a comprare una casa e ad impiantare un piccolo commercio in dollari che gli consenta di sopravvivere dignitosamente.
Appena arrivati all’Avana si può contare sull’anonimato più assoluto. In quel periodo, fra l’altro, l’isola era lontana anni luce perfino dal più arcaico stadio di informatizzazione.
Le informazioni tra le stazioni di polizia venivano scambiate tramite posta o telefono con gli immaginabili ritardi. Questo costituiva una ideale copertura per i delinquenti d’ogni risma.
Vale anche la pena di dire che se ti muovi da una provincia all’altra, devi giustificare alla polizia il perché del tuo allontanamento dal luogo di origine, altrimenti ti rispediscono indietro immediatamente.
Questa misura, oltre ad essere immensamente iniqua, sarà la ragione principale, certo non l’unica, della piega tragica che la storia di Maquendo prenderà negli ultimi anni. 

Il Nostro, con la sua lesta ed essenziale maniera di osservare le cose del mondo, mi ha sempre detto che la grande tragedia del popolo cubano non è tanto l’essere prigionieri dell’isola e non potere andar via, quanto l’essere bloccati all’interno dell’isola. Non potersi muovere liberamente dentro i confini di Cuba è la peggiore delle condanne. Doppia prigionia, doppie catene, doppi intralci. Tutto duplicato.
Se si cambia provincia senza una ragione specifica bisogna trovarne una, cosa quasi impossibile. Oppure è necessario corrompere i poliziotti della zona dove ti sistemi - anche da queste parti e come sempre, vale l’adagio che recita che più numerose sono le regole, più c’è spazio per la corruzione necessaria per aggirarle.
Come è facilmente comprensibile, Maquendo ha scelto la seconda opzione, come la maggior parte dei “Palestinos” hanno sempre fatto.
Ha quindi messo da parte un po’ di soldi per comprare la tutela dei poliziotti di zona che non lo hanno infastidito più per anni.

Dal 1996 fino al 2000 ha vissuto il suo periodo d’oro nella terra promessa. Non so spiegare bene il perché, ma il Nostro è sempre riuscito a conquistarsi la fiducia e l’interesse dei turisti. Sarà il suo orgoglio di cubano che rifiuta ogni offerta di soldi facendoti credere di aver trovato un vero amico, anche se poi ti sta scucendo i soldi da un altro buco delle tue tasche.                                         
Forse perché, nonostante sappia a stento leggere e scrivere, ha criterio e arguzia da vendere. Oppure sarà quella sua capacità innata di capire al volo le cose della vita e spiegarle con due semplici parole.
Magari è la simpatia delle sue battute fulminanti. O il fatto che circolare con lui ti dia l’impressione di avere tutto sotto controllo. In ogni caso i turisti lo adorano a tal punto che quando tornano all’Avana il primo pensiero è per lui.
Lo coprono di regali, gli portano vestiti firmati che lui rivende poco dopo, lo invitano a bere e a cena fuori. Tutti gli vogliono bene.

Il fascino di Maquendo passa dalla comune intuizione che spesso dal concime nascono i fiori più belli. Maquendo nel letame ci sguazza da sempre, ne ha viste di tutti i colori e riesce a essere spietato con gli altri, ma sa anche tirare fuori dal cappello una piccola perla, un pensiero che abbaglia o un’idea che fa capire tutto in un attimo. E’ come se avesse una innata capacità di congelare il mondo che gli ruota attorno, analizzarlo a fondo con poche parole, e restituirlo al suo fluire come se nulla fosse.

Maquendo è quasi analfabeta, e le uniche cose che credo abbia letto sono i cartelli stradali e forse i rapporti di polizia che lo riguardano. Non ha mai viaggiato fuori dal proprio mondo. Quando mi vede correre in giro alla ricerca di un giornale europeo per avere notizie, mi squadra con un’occhiata di commiserazione e mi da dello stupido e del pazzo.
Si interroga sinceramente sul perché io possa perdere del tempo leggendo. Mi prende in giro perché sa che ammiro il suo modo sostanziale di ragionare e non potrei mai avere le sue percezioni, neanche se riuscissi a leggere tutti i libri del mondo o visitarne tutti i luoghi. E’ questa la sua rivincita verso il nostro universo “civilizzato”.

Qualcuno ha parlato della menzogna e dell’inganno della civiltà, ma lasciamo stare altrimenti si rischia di confondersi. Di certo c’è che Maquendo sa di possedere il grande dono della essenzialità ed immediatezza, che in quel posto riesci a coltivare forse perché ti sostiene una cultura primordiale. E ti sventola sotto il naso soluzioni, idee e pensieri con il compiacimento di chi sa che quella è la sua specialità, e che i turisti lo apprezzano per questo.

Vogliamo dar la colpa al solito immenso charme che una vita disperata esercita su di un povero occidentale ingenuo, mosso a compassione mentre osserva gli uomini dibattersi tra gli stenti e la miseria materiale? In questi casi si ritrovano, a volte perfino inconsciamente, tutte le certezze del privilegio economico. Certezze date per scontate e forse già dimenticate - chissà perché la Fiat e i Windsor mandano i figli in fabbrica e in guerra.

Maquendo ti fornisce indirettamente quella rassicurazione sulla tua condizione di favorito che ti fa sentire al riparo da tutto, e al contempo ti spinge a fiondarti a capofitto nel suo universo perché devi conoscere tutto il dolore del mondo. Perché il valore di un fiore che spunta dal letame non ha confronti. Maquendo è una occasione unica.
Ogni tanto mi dice: "Tanto io muoio prima di te e sono felice di farlo perché ti voglio vedere soffrire come un cane, tanto so che soffrirai quando muoio."

Dicono che c’è più vita in un tugurio africano o in una bidonville di una qualsiasi metropoli del terzo mondo che nel ricco occidente. Dove succedono le cose più umanamente misere. Tanto misere che ci si chiede se non siamo tutti piombati in un B movie dell’orrore.
Ma noi siamo civilizzati e abbiamo un’istruzione da primo mondo e tra pochi anni avremo i chip sotto pelle e sapremo tutto di tutto. Basterà solo pensare di sapere e sapremo. Tante informazioni quante nessuna mente ha mai pensato di poter immagazzinare.

Borges ha scritto un racconto che si intitola “Funes el Memorioso”.
Ireneo Funes ricordava tutto, dava un nome ad ogni pietra, ogni uccello ed ogni ramo. Ricordava non solo ogni foglia di ogni albero di ogni foresta, ma anche ogni singola volta in cui le aveva percepite o immaginate. Al momento della propria morte era addirittura stizzito per non aver ancora potuto catalogare tutti i ricordi della fanciullezza.

Era però incapace di produrre idee generali. Non solo non capiva che il simbolo generico del cane potesse abbracciare individui singoli di diversa taglia, ma si contrariava all’idea che il cane delle tre e un quarto visto di profilo potesse avere lo stesso nome di quello delle tre e sedici minuti visto di fronte. Pensare significa dimenticare le differenze, generalizzare e astrarre. Il suo mondo era fatto solo di dettagli, semplici nozioni.


Si dice che noi siamo quello che sappiamo. Dicono anche che siamo quello che mangiamo, cosa che sembra sensata. 
Si può dire che filtrare la conoscenza vale più di ogni cosa? E che capire può perfino essere più importante di sapere? 

Forse Maquendo, il buon selvaggio, lo ha compreso senza che nessuno glielo abbia mai spiegato.
E’ anche vero che nel nostro mondo evoluto le conoscenze e le informazioni percolano fino a noi secondo gli arbitrii e i piacimenti di chi controlla e agisce sulle barre dei mezzi di informazione di massa. 
Ci vogliono sforzi immani e brama autentica di sottrarsi ai raggiri per procurarsi elementi di conoscenza in modo autonomo e senza dipendenze.
Purtroppo, pochi riescono a farlo, e si conquistano distese di libertà senza pari. Farla in barba a chi immagina, grazie al proprio strapotere, di indirizzare il tuo modo di pensare è come acme del piacere multipla e ininterrotta. Che disgraziatamente si arresta all'istante se si riflette su chi è ancora narcotizzato.


Tornando al nostro campione, non vorrei che si pensasse che io sia l’unico ad ammettere l’ascendente che il Nostro possiede.
C’è un gruppo di americani di S. Francisco che lo adora a tal punto da essersi offerti di comprargli una casa pur di non vederlo più vagare alla ricerca di un posto dove dormire. Uno di loro, quando Maquendo era dipendente dal crack, lo ha trascinato via dall’Avana, lo ha portato in una casa di campagna, e ha trascorso con lui una settimana per aiutarlo durante la crisi.
Ha rinunciato a parte delle proprie vacanze pur di recuperarlo.

Maquendo sa però anche essere duro, e capita che quando hai bisogno di lui ti mandi a quel paese. Magari perché ha qualcosa di più importante da fare o semplicemente perché non vuole rotte le scatole.
In un posto dove tutti sono a tua disposizione e si offrono di aiutarti anche se non ne hai bisogno, perché questo può significare una mancia o solo una birra a scrocco, trovare qualcuno che ti pianta in asso perché in quel momento non gli interessi ti fa sentire più tranquillo riguardo la natura dei rapporti con il prossimo. Sarà strano, ma sentirsi rifiutato riscalda il cuore. Lui sa che tanto, prima o poi, ritorni a cercarlo. E su tutto ciò ci marcia, eccome.

Una volta ho assistito a un diverbio tra il Nostro e un canadese borioso e arrogante. Ad un certo punto Maquendo gli ha mollato un cazzotto in faccia perché punto nel suo senso di dignità di cubano. Il pugno non è volato quando si discuteva di soldi, la vera ragione del contendere, ma solo perché il canadese, con un'offesa, aveva violato un sacro merito: l’orgoglio e l’onore suo e di tutti i cubani. 
All’Avana nessuno mai torcerebbe un capello a un turista perché si rischia grosso. Maquendo è l’unico, o almeno uno dei pochi, che ancora reagisce per mettere le cose a posto e per questo, chi conosce bene l’isola, apprezza certe sue reazioni.

Nel giugno del 1997 ero a S. Domingo e ho chiamato casa sua per avere notizie. Quando mi hanno detto che era in ospedale perché gli avevano rifilato l’ennesima coltellata della vita, ho anticipato la partenza verso l’Avana perché non potevo fare a meno di vederlo. 
L’ho trovato nel reparto di terapia intensiva di un ospedale. Aveva perso in pochi giorni almeno 10kg. Ho dormito due notti lì con lui, e dato che la dieta che si riservava ai malati era, per ovvie ragioni economiche, ben stretta, gli ho portato per tutto il periodo del ricovero il pranzo e la cena.

La coltellata l’aveva presa, per uno stupido battibecco, da un balordo che non contento dell’esito della precedente scazzottata era andato a casa, aveva preso un coltello da cucina e glielo aveva piantato lateralmente, tra le costole, per prendergli il cuore con il chiaro intento di farlo fuori, come solo i delinquenti di lungo corso sanno fare. 
Se vuoi ammazzare qualcuno con una pugnalata secca, non devi colpire di fronte ma di lato, un po’ sotto l’ascella perché da lì arrivi dritto al cuore, e la lama deve fare meno strada.
Per fortuna, Maquendo ha capito che l’altro lo stava colpendo, si è spostato in tempo e il coltello non è arrivato a segno. Ha comunque preso una brutta infezione, e in ospedale gli hanno tirato fuori tutte le trippe per disinfettarlo.
Oltre alla cicatrice sul costato, gliene è rimasta una di almeno trenta centimetri sullo stomaco, dallo sterno fino a sotto l’ombelico, perché da lì hanno fatto uscire e rientrare gli intestini.

Parlando dell’episodio della coltellata, anni dopo, mi ha fatto capire qualcosa a cui non avevo mai pensato. Mi ha spiegato che l’omicidio è un attimo. Non c’è mai niente di premeditato. Lui sostiene che succeda solo nei film che si facciano dei piani per eliminare qualcuno. Nella realtà basta un secondo per decidere e portare l’azione a compimento. Mi ha detto che ha visto decine di tentativi di omicidio in vita sua, e che raramente si è trattato di qualcosa di premeditato. Tranne nei casi di vendetta. Come è successo a lui.
La conclusione dell’analisi è che, secondo lui, chiunque può uccidere. Non solo i delinquenti o gli squilibrati. E per questo spesso mi ricorda che dentro di me c’è un assassino.
Flaiano diceva che la nostra condizione perenne è la prostituzione e la nostra massima aspirazione è l’omicidio.

Maquendo è alto 1,75, ha l’aspetto da indio, capelli quasi lisci e lunghi che raccoglie con un elastico, la pelle ambrata, gli occhi neri ed incavati.
Magro come uno stecco, la bocca ormai sdentata fa una strana smorfia a metà fra il disgusto e il dolore di chi è stanco di trascinarsi a forza.

Eppure nel periodo d’oro è stato felice di vivere. Aveva anche trovato l’amore di una donna di Santiago, che ha poi costituito il punto di partenza della sua lunga scivolata verso il fondo del baratro nel quale si è poi trovato.
Lei lo ha abbandonato per un uomo di passaggio che l’ha portata via per sposarla. E in quel momento sono iniziati i suoi guai.
Lui che beveva poco e prendeva una sbornia ogni tanto, e tranne le sigarette non aveva altri vizi, un giorno ha provato il crack e per due anni non ha fatto altro che fumarlo golosamente, fino a ridursi un fantasma.
Tutto per amore di lei, della santiaguera che era andata via con un altro. Almeno, secondo quello che ripeteva, era questa la ragione della sua alleanza con la dissoluzione.
In quel periodo lo vedevo meno possibile perché era diventato pericoloso e incontenibile. Ha perfino rubato a casa mia per comprare le pietre da fumare.

Ho visto decine di uomini, donne e ragazzine all’Avana distruggersi con il crack. Vendersi a chiunque per due o tre dollari. Perdere il senno e non mangiare per settimane, sempre alla ricerca di pochi spiccioli per fumare.
Il crack ti fa toccare il fondo dell’abisso, e dato che non puoi rimanere lì in eterno altrimenti muori, spesso riesci a risalire, e quando rivedi un po’ di vita, il più delle volte decidi di metterci una pietra sopra e smetti.
E’ una droga orribile, ma almeno quando ne esci è difficile inciampare di nuovo. Il ricordo di quello che hai passato ti fa venire un nodo allo stomaco così doloroso da sopportare, che lasci perdere per sempre.

Per fortuna anche Maquendo si è tirato fuori dall’abisso, ma gli è rimasto sul viso quello sberleffo che va via solo quando riesce a sorridere. E succede sempre più raramente. Nel periodo peggiore marcato dalla dipendenza, Maquendo era entrato nel mirino della polizia che sapeva bene dei suoi furtarelli e scorribande continue per raggranellare i soldi necessari per fumare.
Al commissariato di zona aspettavano soltanto di acciuffarlo sul fatto, magari mentre truffava un turista o rubava un paio di scarpe. A quel punto lo avrebbero rimandato in prigione a Puerto Boniato a Santiago, da dove chissà quando sarebbe venuto fuori.

Allora ha aguzzato l’ingegno e ha partorito una nuova idea per poter continuare a vivere all’Avana indisturbato. Ha deciso di diventare un ubriacone da strada.
Dopotutto il drogato è un elemento antisociale, una monade impazzita che causa solo guai, mentre l’alcolizzato professionista è sempre ridotto al rango di innocua macchietta che può al massimo alzare la voce o fare le bizze per strada se lo infastidiscono, ma non costituisce un rischio reale.
Il suo unico obiettivo è un bicchiere pieno di rum che chiunque gli concede. E se non ne trova di buona qualità, basta comprarlo per pochi centesimi dai distillatori clandestini.
L’alcolizzato non è un pericolo per nessuno all’Avana perché non ha necessità di rubare per rifornirsi del rum che lo stordisce. 
Maquendo, in piena coscienza e controllo dei propri pensieri, decide allora di iniziare a bere smodatamente per guadagnare rapidamente il nuovo status sociale che gli concede il lasciapassare per prolungare la propria residenza nella capitale.

Circolando con lui per le viuzze dell’Avana Vecchia ti rendi conto che la sua condizione gli riserva dei vantaggi lampanti. Nessun poliziotto lo fermerebbe perché lui è solo un ubriacone che non da noia a nessuno. Maquendo, al riparo da tutti i rischi, continua a fare i suoi piccoli traffici e imbrogli senza che nessuno lo disturbi.
Per rimarcare la propria dipendenza dall’alcol, passeggia con al collo una bottiglietta di rum agganciata ad una catenella. Sul tappo ha fatto un piccolo foro dove ha messo una cannuccia per le bibite che staziona all’altezza delle labbra, così da non dover muovere un dito per poter bere.
Per rendere tutto più carico e scenograficamente impressionante, indossa attorno la fronte una fascia di plastica ricavata dalle fettucce che abitualmente vengono usate all’Avana per delimitare le numerosissime zone pericolose minacciate da crolli.
La parte comica sta nella scritta “Alto Peligro” presente sulla fascia che lui mette ben in risalto perché tutti leggano e comprendano la sua presunta pericolosità sociale. Il tentativo di accreditarsi come elemento antisociale è un ingegnoso escamotage per testimoniare in modo netto la propria indole. Ciò lo rende ancora più visibile come soggetto al di fuori della realtà e quindi definitivamente inoffensivo. Nessuno realmente pericoloso andrebbe in giro con tale minaccia scritta in fronte.

Maquendo credo sia l’unica persona all’Avana che può apertamente mandare a quel paese un poliziotto. L’ho visto insultarli a più riprese per strada, e la loro unica reazione è un divertito sorriso di compatimento. Si prende il lusso di burlarsi dell’autorità più temuta in tutta l’isola. Urla le offese a squarciagola e nessuno gli dice niente perché si tratta solo di Maquendo el borracho.

La storia però ha anche un ovvio risvolto sanitario. Questa impunità è ottenuta a caro prezzo perché il Nostro, nel frattempo, è diventato alcolizzato per scelta ma anche per davvero. La mattina, quando si sveglia e non ha ancora bevuto, vaga come un ectoplasma, e ho visto le mani tremargli come ad un malato di Parkinson. Tutto gli passa appena rimette in circolo, con un cicchetto, l’alcol che ormai nel suo corpo, in quantità, credo superi il sangue. E come tutti gli ubriaconi non si lava e dorme dove gli capita.

Un pomeriggio, dopo aver bevuto alcune birre insieme, abbiamo parlato del decadimento fisico e della vecchiaia. Maquendo, un po’ indignato perché gli raccomandavo di bere di meno, mi ha spiegato come fanno i vecchi ubriaconi a portare alle labbra un bicchiere di rum evitando che il liquido, per il tremolio delle mani, si sparga per terra.
L’espediente è anche citato da Bukowski in uno dei suoi racconti.
I due non si sono mai incontrati, quindi, l’artificio è patrimonio mondiale mai brevettato.
Basta legare una corda o una striscia di tela al polso della mano con cui si regge il bicchiere. L’altro capo si passa attorno al collo oltre la testa, e si afferra con l’altra mano. A quel punto si può prendere il bicchiere portandolo alle labbra senza tremiti, perché sarà l’altra mano che tirando la corda lo guiderà con certezza a destinazione, assicurando la stabilità. 
Quando mi ha mostrato come fare ha anche aggiunto che non teme la vecchiaia e non avrà mai bisogno di nessuno perché questo trucchetto gli garantirà una pensione serena.
Per un certo periodo, dopo l’abbandono da parte della santiaguera, Maquendo ha dormito in casa di amici. Poi ha iniziato a vagare da un sottoscala all’altro, senza un punto fisso di riferimento.
Quando lo andavo a cercare era quasi impossibile trovarlo. Questa fase è durata un po di mesi, fino a quando ha stretto un accordo con il proprietario di una vecchia Buick del ‘53 in disuso. Pagava una piccola cifra che gli consentiva di dormire all’interno della macchina.
La Buick era un vecchio dinosauro non più in condizioni di circolare - qui le vecchie macchine americane le chiamano “almendrones”, forse perché la forma ricorda quella delle mandorle. Il suo era parcheggiato in una zona centrale del quartiere.

Maquendo diceva che quello era il suo ufficio, e quando andavi a trovarlo ti riceveva sui sedili sudici e marci. Si trattava di un bel passo avanti rispetto alla situazione precedente. Almeno aveva un posto dove poter riposare senza preoccuparsi ogni giorno, al calar del sole, di cercare un buco dove dormire. Dopo alcuni mesi, in seguito all’ennesimo litigio con il proprietario della macchina per il mancato pagamento della pigione, il Nostro è stato sfrattato e si è trovato di nuovo nei guai. 
In quel periodo ero in Italia e al mio ritorno, come sempre del resto, sono andato a cercarlo per sapere che fine avesse fatto. L’ho trovato addormentato in pieno giorno, sdraiato su di una panchina del parco al centro del quartiere.

Con il sole a picco delle 12 è persino difficile dormire all’ombra. Lui era lì, al centro della piazza. A quell’ora, ai tropici, se rimani solo 5 minuti al sole inizi a sudare. Maquendo invece russava come un orso. Ho fatto fatica a svegliarlo, e dopo avermi mandato a quel paese in mille modi, ha finalmente messo a fuoco la situazione. Ha capito che non mi vedeva da due mesi e che ero appena tornato dall’Italia.
Era una buona occasione per bere qualcosa e si è tirato su dicendomi che aveva bisogno di un po’ di rum.

Era ridotto come mai lo avevo visto. Magro e macilento, il viso gonfio e il colore e la consistenza della pelle di chi sta male e non dorme da mesi. Aveva di nuovo toccato il fondo ma cercava di darsi un contegno davanti a me. Quello è il suo stile. Mai mostrare la corda e non calpestare il proprio orgoglio.
Dopo poche domande ci siamo guardati fissi negli occhi, e per la prima volta ho visto i suoi inumidirsi. A quel punto mi ha chiesto di pagargli un mese di affitto di un letto in casa di qualcuno. Erano ormai settimane che non dormiva di notte.
Poi mi ha spiegato che non possedeva più né vestiti né scarpe perché gli avevano rubato tutto. Gli unici stracci li aveva addosso, ed era costretto a bere tutta la notte per timore di addormentarsi perché, se cedeva al sonno, a quell’ora gli avrebbero rubato le scarpe. Era quindi più sicuro dormire in pieno giorno nel parco.
Ha anche aggiunto che preferiva che fossi io stesso a pagare la padrona di casa, così da assicurarmi che lui non avrebbe preso i soldi per ubriacarsi, né li avrebbe pretesi indietro da lei per poi spenderli in rum e tornare a dormire di giorno nel parco.

Era la prima volta che Maquendo si dava per vinto e mi chiedeva direttamente qualcosa, e quando io ho subito acconsentito, come mai prima, ho visto una luce di riconoscenza nei suoi occhi.
Quello che mi è rimasto più impresso è stato il modo in cui mi ha chiesto il favore. Mi ha detto: “Llenate de valor y pagame el alquiler de un mes”, che più o meno letteralmente significa “riempiti di coraggio” o ancor meglio “tira fuori le palle”.
Mai uno come lui mi avrebbe chiesto di aver pietà e compassione tanto da aiutarlo a tirarsi fuori dalla merda in cui stava. Maquendo ha rilanciato la palla nel mio campo chiedendomi di mostrargli se avessi avuto il coraggio di investire su di lui a tal punto da pagargli l’affitto di un mese. Mi aveva così chiesto un favore, ma aveva anche salvato il suo orgoglio.

La morte il Nostro l’ha vista da vicino tante volte e ne abbiamo parlato.
La vita lo ha sempre trattato male. Se gli parli di Dio si inalbera all’istante sostenendo che se esistesse, dato che tutti dicono che è buono, non lo avrebbe mai trattato così male. Se gli è successo il peggio, si chiede perché Dio non l’abbia impedito. Dice che Dio è solo superstizione.
Una volta mi ha però detto che forse un po’ ci crede, ma non è tanto sicuro. Pensa che sia solo un modo per allontanare la paura della morte. 
Ha poi aggiunto che con certezza crede nell’attesa. Tutti stiamo ad aspettare sempre qualcosa, e forse questa è la chiave di tutto. 
L’attesa di qualcosa di buono, di una donna, di un futuro e anche della morte, e perfino di Dio.
Aspetta di diventare ricco e viaggiare, e intanto beve per far passare il tempo. Una giorno gli ho detto che forse beve per dimenticare e sdegnato mi ha risposto che non vuole dimenticare niente. Lui, al contrario, beve solo per ricordare e anche per far passare il tempo.

I cubani, evidentemente, non sono i campioni mondiali dell’understatement. In tutte le loro manifestazioni esagerano i toni e farciscono di lirismo e pathos ogni loro azione. Spesso tendono ad alzare la voce e a parlarsi uno sull’altro.
Il codice dell’understatement impone di volar basso, di non ostentare mai le proprie conoscenze, il proprio censo o le rendite. I cubani d’altro canto, appena hanno due soldi da spendere, si privano anche del cibo pur di comprare una catena d’oro o qualcosa che possa impressionare gli altri. E se hanno una minima cognizione in un dato campo, si accreditano come i primi esperti della terra.

Maquendo sdegnosamente giudica questo tratto caratteriale come insopportabile e non degno di un uomo rispettabile. Il codice di Maquendo assomiglia anche al Codice Hemingway. 
Per scamparla in questo mondo ci vogliono rispetto, coraggio, calma e sopratutto dignità e orgoglio. Per contrastare la solitudine e lo smacco certo che ci riserva la battaglia con la vita, bisogna mostrare “grace under pressure”, decoro e contegno, anche se si naviga nelle peggiori acque. E questo già di per sé costituirebbe una vittoria.
Gli scrittori, i pittori, i musicisti, perfino i calciatori che portano quello sport fino a livelli di arte figurativa (penso a Maradona, Best, Meroni, Gascoigne e altri), insomma gli artisti in genere, sono quelli che pagano per la loro sensibilità il tributo più alto alla vita in termini di giovinezza, energia e dolore.

Van Gogh diceva che sono come il ronzino che rimorchia una carrozza piena di gente vociante che assapora il profumo e le gioie della primavera, al contrario di chi fino a quel punto li ha trascinati.

Gli artisti sono quindi il vero reparto avanzato dell’esistenza che assaggia per primo l’essenza delle cose e si incarica di trasmetterla agli altri ripulita di tutti gli amari retrogusti che la ricerca implica.

Gli artisti sono eruditi per eccellenza. Ma per fortuna esiste un altro tipo di artisti. Gli artisti della vita, i saltimbanchi dello spirito, i funamboli del cuore. E sono loro la vera eccellenza della categoria. Maquendo è senza dubbio uno di loro.
Lui che non ha mai letto neanche i fumetti di Elpidio Valdes, applica perfino il Codice Hemingway alla propria esistenza.

Maquendo è morto di cirrosi epatica il 21 giugno 2011.





martedì 18 giugno 2019

PALERMO FA SCHIFO


Come si può essere siciliani? Con difficoltà.
L. Sciascia 


"Cosa pensa della società italiana?” “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. 
O. Welles

"Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale"
G. Falcone

Palermo fa schifo, e i palermitani fanno ancora più schifo. Senza ipocrisie. Sciascia, molto elegantemente, diceva che è una città irredimibile. E Orson Welles non conosceva la borghesia siciliana... 
Palermo capitale della terra del (vo)Mito. Un luogo in cui si vive per anni nello stesso condominio e appena ci si saluta non è una città ma una caverna. E’ un posto in cui se stai guidando e fai con cortesia notare a un altro automobilista che hai la precedenza, la risposta è: “Ma che minchia vuoi?”

Se mai esistesse la figura del Palermitano medio, i suoi pregi e virtù sarebbero prepotenza, tracotanza e spesso aggressività. Chi ha animo pacifico e conciliante e tende a rispettare le regole è un "fissa".

Palermo non è una comunità di uomini ma di bestie. La bestialità è uno dei tratti distintivi della cultura mafiosa e noi la portiamo dentro in buone quantità, la bestialità. 

A Palermo non esiste una singola famiglia allargata che non abbia almeno un legame, seppur lontano, con dei mafiosi. 
Basta raccontare favole. Chi vive a Palermo lo sa. La mafia è anzitutto sopraffazione, reazione e violenza, e i palermitani tutto questo l’hanno nel sangue.  

Non esiste una parvenza di borghesia illuminata perché c’è solo quella mafiosa che fa affari da sempre col potere politico, che qui è solo mafioso. 
In ogni zona della terra, se speri di innescare un cambiamento, la classe borghese è il detonatore. Chi produce, chi si informa e prova a responsabilizzare il resto della popolazione. Qui la borghesia è mafiosa fino al midollo. Non è interessata a nessun cambio perché svanirebbero i privilegi. 

Quasi non esiste imprenditoria, quella vera che produce beni e reclama utile rappresentanza politica. Gran parte delle aziende che stanno sul mercato appartengono alle cosche o devono sottostare alle loro regole. Esistono eccezioni, ma sono ridottissime minoranze. Da sempre si vive di improduttivi trasferimenti di soldi pubblici ai privati da parte della Regione Sicilia. 
Cosa ti puoi aspettare da un simile ceto imprenditoriale? 

Basta poi vedere chi rappresenta i siciliani all’assemblea regionale. Dei 70 parlamentari regionali, almeno la metà sono mafiosi essi stessi, o diretti referenti delle cosche. Forse si tratta di molto più della metà. Chi parla di moralizzazione della politica siciliana fa solo ridere i polli quando tutti sanno della qualità del consenso elettorale che viene scambiato, comprato, estorto, imposto o, nella migliore delle ipotesi, è il risultato di orribili clientele. Basta ipocrisie. Se mandiamo questa gente a rappresentarci vuol dire che siamo un popolo di mafiosi. Perchè fare finta di niente? 

Esiste una tale confusione fra mafia e antimafia che capita di vedere il fratello di Borsellino che abbraccia commosso Massimo Ciancimino in occasione delle celebrazioni per la morte del fratello Paolo.
Negli anni abbiamo imparato a conoscere soggetti del calibro di Montante, Lumia, Saguto, Helg o Lobello. In Sicilia perfino i comunisti sono spesso mafiosi, per non parlare dei preti... 

Il sindaco Orlando, paladino dell’antimafia, è figlio di uno dei consigliori delle cosche più in vista del foro di Palermo nel primo dopoguerra che diventa am-professore perchè nominato d’imperio dagli americani grazie ai propri addentellati. 
Il sindaco iperbolico parla ancora di Palermo città europea, ma questa dovrebbe prima diventare una semplice città e non un covo di mafiosi e massoni che ne hanno strozzato ogni sussulto vitale.
Palermo città più bella del mondo, fonte di ispirazione inestinguibile, di spunti letterari e teatrali. Anzi, teatro dell'assurdo vivente in permanente rappresentazione. Palestra ideale per l'esercizio del sopruso, della sopraffazione e della violenza. Città tomba di ogni giustizia. 
Se non si fugge, si rischia di morire ciechi perchè non c'è più nulla di cui stupirsi in un simile luogo.

Il padre del Presidente della Repubblica, il vecchio Bernardo, venne accusato da Danilo Dolci di essere colluso con la mafia. Dolci fu trascinato in tribunale e condannato a 2 anni di carcere che per fortuna non sconterà mai. 
A Castellammare del Golfo anche i bambini conoscono la famiglia della moglie di Don Bernardo, i Buccellato-Rimi. Come racconta Casarrubea in uno dei suoi libri, per anni Andreotti e Mattarella padre hanno coperto la latitanza di Vincenzo Rimi che pare sia ancora vivo in Spagna.
Alcuni dicono che Bernardo sia il vero mandante della strage di Portella delle Ginestre. 

Anche Falcone veniva dalla Kalsa, uno dei quartieri a più alta densità mafiosa della città. E lui stesso ammetteva che se non fosse nato lì non avrebbe mai potuto capire niente dei meccanismi della mafiosità. 
La procura di Palermo è in parte collusa con la borghesia mafiosa locale o preferisce farsi gli affari propri. Tranne pochi eroi isolati o puntualmente ammazzati. 
Sciascia, sempre lui, diceva che in Sicilia lo stato per sconfiggere la mafia dovrebbe suicidarsi. 
Lasciamo poi da canto il mondo accademico e la sanità. Si potrebbe andare avanti per giorni interi.
 
C'è poi l'attitudine corrente del palermitano medio, sempre pronto a trasformarsi in animale feroce e a scatenare una guerra se solo un centimetro del proprio territorio viene messo in discussione. E d'altro canto agire come fosse una scimmia ubriaca se un bene pubblico viene sprecato, mal amministrato o rubato. Nell'ultimo caso, anzi, prevale una sorta di ammirazione per chi se ne appropria. 
Anche questo, in parte, spiega perchè l'isola in massa ha votato Berlusconi, effigie vivente dell'imbroglione che ce l'ha fatta in barba ad ogni regola e limite.
A Palermo, ciò che altrove causa indignazione civile, al più provoca invidia.

Ultima nota: la città ha il primato nazionale della raccolta differenziata dei rifiuti, solo il 15% (il dato peggiora ogni anno!), e nei quartieri più ricchi ed "evoluti" la percentuale non migliora.

Ma che cosa vi aspettate da una città come questa? Nessuno mai dice la verità ad alta voce perché altrimenti si è ostracizzati a vita. Espulsi da questo corpaccione puzzolente come un’escrescenza. 
Bisogna far finta di niente e dare tacito assenso ai falsi propositi di riscatto civile di quattro ipocriti da strapazzo che sanno più di ogni altro che la loro è solo una recita, tanto non cambia nulla e niente è mai migliorato negli ultimi 70 anni. 
Perché a Palermo siamo tutti indistintamente responsabili dello schifo in cui ci troviamo, nessuno escluso.


lunedì 22 aprile 2019

LA CULTURA DEL RAZZISMO A CUBA


"Se metti una gallina bianca in un altro pollaio di galline bianche viene respinta e beccata dalle altre per giorni. 
Succede anche fra i topi e le api. 
Guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell’uomo dovessero essere tollerate. 
Le leggi umane servono a limitare gli impulsi animaleschi." 

Primo Levi


“Es negro pero tiene alma de blanco.”
Anonimo


A Cuba sopravvivono ancora uomini i cui padri sono stati schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero. I vecchi raccontano per strada le loro storie e la loro condizione prima della Revolucìon. Gli anziani di colore sono di una bellezza toccante. Sono il vero cuore di questo paese e hanno un'eleganza inconfondibile. I più poveri indossano i propri dignitosi stracci con una sobrietà che non ha pari. 
Walker Evans, il grande fotografo americano che visitò Cuba negli anni prima della rivoluzione, diceva che da queste parti per essere un vero dandy devi necessariamente avere la pelle nera. I neri dicono anche che un nero è giovane per sempre e non invecchia mai, anche se ha ottant’anni.


Come si fa a parlare del razzismo a Cuba? E’ perlomeno imbarazzante ammettere che esiste, e sarebbe inutile nasconderlo. La rivoluzione cubana ha migliorato enormemente lo status sociale dei neri cubani garantendo diritti che nessuno di loro avrebbe mai sognato di poter esercitare. Tutti possono accedere all’università, all’assistenza sanitaria e ad ogni servizio che lo stato fornisce ai cittadini senza alcuna restrizione.
Ma nonostante i meriti del socialismo in salsa caraibica, nei loro confronti è sempre presente nell’aria una sottile vena di discriminazione. 
Non ho mai sentito nessuno offendere un nero per strada con l’insulto negro de mierda. E’ più probabile sentire urlare maricon de mierda o puta de mierda. Con i neri non è necessario rincarare la dose o infierire perché la parola negro ha già una marcata connotazione negativa. Al colore scuro della pelle si associa una condizione che li porta a essere, nel sentire comune, tendenzialmente ladri e bugiardi, prevaricatori nei rapporti con le donne, se non violenti, ed in ogni caso poco affidabili. 
In realtà è sempre la stessa storia della marginalità sociale, figlia della povertà, che di frequente genera comportamenti che sconfinano nella illegalità. Esiste poi la secolare e strumentale criminalizzazione dei neri per ragioni politiche ed economiche, atroce eredità del periodo in cui gli americani erano gli unici padroni del paese. 
Se a qualcuno obbietti, nel tentativo di giustificarli, che ci sono anche molti bianchi delinquenti, ti senti rispondere che quando succede questi sono insuperabili, sono i più bravi e non si fanno beccare mai perché più intelligenti. 
Da queste parti, quando ci si trova davanti ad un problema di difficile soluzione, si dice: “Actuamos como los blancos”, agiamo come i bianchi. In breve, facciamo le cose con raziocinio. 
Se si deve scegliere un colpevole fra un bianco e un nero è più probabile che paghi il nero. 
Se devi raccontare un fatto accaduto per strada e dirai, per esempio, che hai visto un uomo scendere dall’autobus, allora si tratterà certamente di un bianco. Se invece dall’autobus scenderà un nero non dirai più ho visto un uomo, ma ho visto un negro, come a sottolineare che il bianco gode del pieno status d’essere umano mentre il nero richiede una chiarificazione cromatica che lo inquadri immediatamente nella scala dei valori sociali (succede anche nelle nostre comuni cronache italiane quando ci si affretta a specificare che "l'uomo, di origine nord-africana, ...").
O ancora, da queste parti si usa dire: “Es negro, pero es buena persona”, e qui ogni commento è superfluo. 

Va però aggiunto che anche i bianchi, quando si rivolgono teneramente ad un altro bianco, usano un’espressione che sembra voler annullare istantaneamente ogni ombra di razzismo: “Mi negrito”
Lo dice la madre al figlio, la moglie al marito o un’amante alla compagna per mostrare il proprio affetto. 
Ma qui entra in gioco l'importanza assoluta della cultura afrocubana che pervade tutto e penetra qualsiasi interstizio. 

Di recente il Centro di Genetica Medica del Ministero della Salute ha condotto uno studio sul DNA degli abitanti dell’isola. Si è accertato che il 70% dei cubani ha ascendenza europea, il 2% è di origine cinese, l’8% india e solo il 20% africana.
Tutti sappiamo che ogni espressione artistica che prende corpo nell’isola deve fare i conti con l’influenza della componente nera della popolazione. E nonostante siano minoranza, i neri hanno da sempre affermato l’onnipresenza e un assoluto predominio del loro modo di rappresentare la realtà.



Sembra poi quasi irragionevole che sia proprio la Revolucìon a commissionare una simile ricerca genetica. In special modo dopo i costanti tentativi di azzerare le discriminazioni razziali, affermando l'essenza egualitaria del regime. 
In ogni caso un fatto è certo: la gran maggioranza della classe dirigente del paese, tranne alcune rare eccezioni, è oggi composta da uomini di pelle bianca. 
Quando un nero riesce ad affermarsi socialmente ed economicamente (si tratta quasi sempre di musicisti, artisti o sportivi), la prima mossa sarà quella di trovarsi una compagna di pelle rigorosamente bianca per accrescere il proprio prestigio ed esporre il trofeo. Il matrimonio misto alla luce del sole non è certo la regola, e per un nero una bianca è una delle “prede” più prelibate al mondo. I matrimoni misti esistono, sono numerosi, ma non comunissimi quanto le relazioni interrazziali “clandestine” o adulterine all’insegna dell’attrazione che esercita la diversità. Anche se le nuove generazioni stanno eliminando ogni steccato, riuscendo a risolvere la questione semplicemente perché non si vergognano più delle commistioni.

A Cuba non puoi fare a meno di guardare e commentare le grazie delle passanti quando sei in compagnia di un amico. Si tratta dello sport nazionale e non puoi sottrarti. Gli uomini cubani, bianchi e neri, spesso preferiscono le donne bianche e mulatte mentre io, se non si tratta di nere o di mulatte più scure, tranne casi isolati, mostro poco interesse. Mi stupisco dei loro gusti, ma loro si stupiscono molto di più dei miei. E’ sempre la solita legge dell’infinito incanto dell’allogeno. Ernesto Guevara era irresistibilmente attratto dai neri cubani e dalla loro carica d’esotismo. E la regola sembra valga per tutti. 

Anche i bianchi a Cuba hanno il loro indiscusso fascino perché abbinano allo spirito caraibico sfumature esteriori che ricordano vagamente gli abitanti dei paesi dell'est Europa prima della caduta del muro. I bianchi cubani hanno una durezza diversa rispetto agli europei e agli americani, triste e irrimediabile, quasi militaresca, che contrasta enormemente con l’esuberanza incontenibile dei neri. Sempre con il sorriso a 32 denti e pronti a fare festa con un po' di rum, un palo y una lata.

Data poi la infinita varietà di pigmentazioni, colore degli occhi e tipologia di capelli che vanno dai tratti cinesi a quelli dei neri centroafricani, con tutte le varianti intermedie, i cubani hanno nei secoli sviluppato un’abilità unica nell’identificazione e catalogazione dei singoli individui. Anche dopo anni di residenza risulta complicato comprendere appieno tutte le eventuali differenze, la cui ricerca sfiora l’ossessione. Per non parlare delle varie denominazioni: moro, negro, azul, mulato, cabao capirro, blanco legitimo, mulato blanconazo, etc. 

Quando, oltre al colore della pelle, si cerca di parametrare quello degli occhi o il tipo di capelli, si sconfina in regioni che solo pochi riescono a frequentare senza perdere la bussola. Nel sud dell’isola ci sono visi con occhi a mandorla verde smeraldo, pelle nera e capelli lisci di discendenza india. Bellezza unica che solo la mescolanza produce.



Ultimamente perfino i cubani hanno imparato a conoscere Salvini, e hanno notizia della recrudescenza razzista in Italia. Si può perfino sentire teorizzare che loro conoscono il razzismo e sanno come addomesticarlo. Con inconscia provocazione alcuni parlano addirittura di cultura del razzismo (qui applicherebbero il termine cultura anche all'uso dello stuzzicadenti...).
E’ certo che la Revolución li ha ben educati a contenere ogni forma di esternazione razzista, che perfino il peggior razzista cubano stigmatizzerebbe. Si potrebbe arrivare a dire che in Italia si è razzista per paura del diverso e per ignoranza. Qui per cultura acquisita nei secoli.
Si gioca con le sfumature cromatiche, con le frasi a mezza bocca intercalate da sorrisini che diluiscono l'ombra discriminatoria che esiste in ogni caso e a dispetto di ogni finzione, mantenendo una forma e un fondo di rispetto nei confronti degli altri.

La cosiddetta cultura del razzismo stempera le pulsioni animalesche di cui parla Primo Levi, figlie della assenza di frequentazione. I cubani si mischiano da secoli e sanno cos'è il razzismo. In Italia, terra di milioni di emigrati, i neri africani sono arrivati solo da qualche decennio. 
Forse nella nostra patria delle città e delle mille piccole provincie inizia a mancare ciò che tutti definiremmo cultura della tolleranza. E pochi hanno capito che non esiste la razza ma il razzismo, come non esiste dio ma la religione. 

Antonio Maceo, altrimenti detto ‘El Titan de Bronce’, il più grande eroe della guerra di liberazione dagli spagnoli che insanguinò Cuba a fine ‘800 era negro.
Poteva vantare ben 25 ferite di guerra, fra pallottole e colpi di machete, e più di 500 battaglie vittoriose. Fu vittima di discriminazione da parte dei colleghi bianchi che, pur riconoscendo le sue indiscusse abilità, tardarono anni prima di nominarlo generale. Perfino la storiografia cubana, almeno fino all’arrivo della Revolucìon e a detta di molti osservatori, non ne ha mai celebrato le gesta a dovere.

Dimostrò sul campo qualità di stratega e combattente superiori a tutti i bianchi impegnati in quella guerra, e riuscì a ridicolizzare il meglio dell’esercito spagnolo. Una simile circostanza era incomprensibile perfino per la scienza dell’epoca. Tanto che dopo la sua morte, avvenuta in un’imboscata appena fuori l’Avana, il cranio del generale venne sezionato per misurarne i centimetri, il peso e risolvere l’arcano. 

Carlos de la Torre, Luis Montané y José R. Montalvo examinando el cráneo del General Maceo

I risultati dello studio, come si può ricavare leggendo le ultime due righe sottolineate delle conclusioni in lingua spagnola, sono perlomeno sorprendenti!

Il testo non richiede traduzione:

Antonio Maceo era un mestizo; 
el cruzamiento del blanco y el negro, crea un grupo ventajoso, cuando la influencia del primero predomina; pero un grupo inferior cuando las dos influencias se equilibran, y con mayor razón cuando la negra lleva en ello la ventaja. 

Peso del encéfalo de 5 negros de Africa 1246 gr.
Peso del encéfalo de adultos europeos 1376 gr.
Peso del encéfalo de A. Maceo 1379 gr.

CONCLUSIONES
      
      Llegados al término que le habíamos impuesto a este trabajo, he aquí las conclusiones, que nos creemos autorizados a sacar del estudio antropológico realizado.
          
      1o. Como ya lo hemos visto en mas de un punto en el curso de estas investigaciones, muchos carácteres antropológicos reintegran a Maceo en el tipo negro, en particular, las proporciones de los huesos largos del esqueleto.
      2o. Pero se aproxima más a la raza blanca, la iguala, y aún la supera por la conformación general de la cabeza, por el peso probable del encéfalo, por la capacidad craneana, lo que permite definitivamente afirmar en nombre de la antropología:
      3o. Que dada la raza a que pertenecía, y el medio en el cual ejercitó y desarrollo sus actividades, Antonio Maceo, puede con perfecto derecho ser considerado como un Hombre Realmente Superior.