“Los cubanos somos bocones, discutidores; conversamos a la vez, en coro disonante, sin oír los argumentos del rival. No nos juzguen mal. Recuerden que no tenemos mucha experiencia parlamentaria”. (Noi cubani siamo sboccati, verbalmente rissosi; sovrapponiamo le nostre voci in un coro dissonante, senza ascoltare le argomentazioni degli interlocutori. Non giudicateci male e ricordate che non abbiamo molta esperienza parlamentare).
Questa frase spiega cosa potrebbe succedere in un ipotetico regime democratico post-Castro.
“Hablar” in spagnolo vuol dire parlare. Gli abitanti dell’Avana sono definiti dagli altri cubani e dai latinoamericani in generale “hablaneros” proprio per la loro inesausta logorrea.
Secondo i racconti tramandati dai primi colonizzatori, sembra che sull'isola esistesse una sola razza canina. La nota più curiosa che si riporta è che i cani pare fossero assolutamente incapaci di abbaiare, praticamente muti.
Il Cuban Hound, segugio cubano, venne subito impiegato per braccare prima gli indios in fuga e poi, in un secondo momento storico, gli schiavi neri che scappati dalle piantagioni si rifugiavano sulle colline circostanti. Il cane indigeno prese il soprannome di sabueso asesino.
Esportato nel sud degli Stati Uniti fece valere le proprie doti di aggressività e resistenza.
La stragrande maggioranza delle famiglie cubane ha un cane a carico nel proprio stato di famiglia. Si tratta di una tradizione antichissima che ha resistito negli anni e perfino alle peggiori congiunture economiche. Sfiora apici inesprimibili per l’affetto e la considerazione che si riservano alle bestie in oggetto.
Gli storici dicono che gli spagnoli usassero i cani per farsi avvisare in caso di pericoli imminenti. Dato che quest’ultimi erano incapaci di articolare anche il più semplice dei suoni, si suppone siano state necessarie delle ibridazioni con specie d’importazione occidentale per dare ai cani autoctoni il dono della parola. Oggi a Cuba i cani latrano, abbaiano, ringhiano e ululano felicemente come tutti gli altri.
Nel pieno centro dell'Avana, al Parque Central, ogni giorno si raduna una piccola folla di tifosi di baseball, lo sport nazionale. Si raggruppano in capannelli di 20 o 30 persone e discutono animatamente delle prestazioni dei giocatori, delle strategie adottate dagli allenatori e di altre questioni tecniche.
Nei giorni che seguono le partite più importanti che magari decidono l'assegnazione del titolo nazionale, le urla raggiungono livelli indicibili. I turisti che non conoscono le abitudini locali e passano di lì per caso, atterriti tendono a fare ampie digressioni per paura di venire coinvolti in una feroce rissa tropicale.
Durante lo scambio di opinioni, spesso non ha la meglio chi propone argomenti più convincenti ma chi riesce ad urlare più forte, tumulando sotto le proprie onde sonore le ragioni dell'altro. Che io sappia, quasi mai si viene alle mani.
Ciononostante, le vene al collo si gonfiano a tal punto da aver la sensazione che i contendenti siano sempre prossimi a metter mano all'arma bianca.
Gli altri tifosi che riconoscono di non possedere doti oratorie e fonatorie tali da poter competere con i migliori urlatori del gruppo, tendono a fare da coro o contrappunto ai picchi del miglior gallo della piazza o del suo contendente. Urla di approvazione o derisione si alternano e fanno da contorno allo spettacolo.
Don
Fernando Ortiz diceva che "a Cuba parlar tanto vale più del parlare bene, e
parlare in generale vale più del pensare".
Qualcuno trema al pensiero di una "lenta e pacifica transizione" proprio per questa ragione. Immaginiamo cosa succederebbe se un popolo poco abituato a scambi democratici dovesse trovarsi solo ad amministrarsi e senza l’immancabile figura paterna del “Jefe”che in America Latina è quasi insostituibile. Un casino di proporzioni sesquipedali, e chissà chi ne profitterebbe prontamente.
Direbbero molti che il destino di Cuba e di altri paesi che non hanno mai visto il pluralismo è vedere scorrere sangue che monda e purifica, e poi consente di installare le vere democrazie, quelle dove si vota (…sic!).
Qualcuno trema al pensiero di una "lenta e pacifica transizione" proprio per questa ragione. Immaginiamo cosa succederebbe se un popolo poco abituato a scambi democratici dovesse trovarsi solo ad amministrarsi e senza l’immancabile figura paterna del “Jefe”che in America Latina è quasi insostituibile. Un casino di proporzioni sesquipedali, e chissà chi ne profitterebbe prontamente.
Direbbero molti che il destino di Cuba e di altri paesi che non hanno mai visto il pluralismo è vedere scorrere sangue che monda e purifica, e poi consente di installare le vere democrazie, quelle dove si vota (…sic!).